La carta (coperta) di Mario Draghi è stata rimessa sul tavolo delle nomine Ue con una non banale operazione politico-mediatica. Lo ha fatto Politico – testata “transatlantica” per eccellenza – con la scelta non usuale di pubblicare un endorsement all’ex premier italiano “a reti unificate”: sull’edizione europea e su quella statunitense. Con con due titoli significativamente complementari.
“Perché Washington sta aspettando Super-Mario”, ha avvertito l’analisi rivolta ai lettori europei. “Un nuovo manuale di economia sta per essere lanciato in Europa: perché gli USA dovrebbero prenderne nota”: l’appello alle élites americane è un riferimento puntuale a un report che Draghi ha in realtà già presentato in bozza originaria: quello sulla “competitività dell’industria Ue” che gli era stato chiesto dalla presidente uscente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.
Quest’ultima resta candidata ufficialmente senza rivali a succedere a se stessa: ma è finita – suo malgrado – nel tritacarne seguito all’eurovoto, che pure nella politica tedesca ha vinto come spitzenkandidat del Ppe. Ma i violenti contraccolpi politici – anzitutto lo choc delle elezioni anticipate in Francia – sono parsi colpire in modo insidioso le chance di Ursula: candidata sì a una riconferma immediata dal presidente francese Emmanuel Macron e dal cancelliere tedesco Olaf Scholz, ma a condizione di ripudiare subito ogni appoggio a Strasburgo diverso da quello della coalizione uscente (popolari, socialisti, liberali e verdi).
È stata questa pregiudiziale “di metodo” a mettere in pausa l’intero pacchetto di “top jobs” a Bruxelles. Questo comprendeva in partenza l’ex premier socialista portoghese Antonio Costa (con qualche ombra per presunti finanziamenti illeciti prima delle sue recenti dimissioni) come presidente del Consiglio Ue; e la premier estone Kaja Kallas come alto commissario per la politica estera (parziale compenso per l’Europa dell’Est e la preferenza accordata dalla Ue all’ex premier olandese Mark Rutte come nuovo segretario generale della Nato). Alla presidenza del Parlamento europeo resterebbe la popolare maltese Roberta Metsola.
Il pacchetto – ufficialmente – resta immutato sul tavolo del Consiglio Ue, pronto per essere scongelato in un nuovo summit alla fine della prossima settimana, alla vigilia del primo turno francese. Ma anche per questo, ancora una volta, l’appuntamento si presenta denso di incognite: se non addirittura – secondo alcuni osservatori – intenzionalmente orientato a una bruciatura della “candidatura obbligata” di von der Leyen.
Quest’ultima, cinque anni fa, fu inventata da Macron, il quale oggi ha invece molti motivi per non gradire una nomina dettata da un esito del voto sfavorevolissimo al presidente francese in patria. E – soprattutto – non è un mistero il dialogo intessuto da von der Leyen con Meloni, che invece ha vinto le elezioni sia in Italia sia in Europa e subordina il via libera a “Von der Leyen 2” a un allargamento a Ecr della maggioranza di Strasburgo e a un incarico di peso per l’Italia a Bruxelles.
Lo stesso Scholz – nel 2019 vicecancelliere socialdemocratico – impose a suo tempo ad Angela Merkel di far astenere la Germania sulla designazione a Bruxelles della sua ministra e collega di partito. Oggi a Berlino la Cdu è all’opposizione e il buon risultato alle europee – a fronte del crolli di Spd e Verdi – proietta il partito di Friedrich Merz verso la vittoria alle politiche tedesche dell’anno prossimo. Neppure Scholz può consentirsi di dare disco verde a cuor leggero alla conferma a Bruxelles di una democristiana tedesca di area moderata. Nella narrazione politico-mediatica lo stop a von der Leyen è stato comunque attribuito a Meloni, ormai bollata come “ex amica”. Nella realtà i “fatti compiuti” che hanno impedito a von der Leyen anche solo l’avvio di consultazioni autonome sono stati decisi all’Eliseo e alla cancelleria di Berlino, entrambi bunker assediati dopo il voto.
Non sorprende che un giornale globalista come Politico – per molti versi una joint venture euramericana di area liberalprogressista – rilanci ora la carta Draghi: forse l’unica vera “riserva della democrazia occidentale” spendibile per l’alta governance europea. Per quale incarico possibile, è ancora presto dire: senza escludere l’ipotesi di una presidenza “tecnica e a tempo” della Commissione, oppure nuovi super-incarichi ad hoc, come la sorveglianza della ricostruzione dell’Ucraina. Certamente, invece, Draghi offrirebbe garanzie preventive di dialogo fluido e affidabile con Washington (e con Wall Street) a chiunque approdi alla Casa Bianca dopo le presidenziali di novembre.
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