Macron e Scholz hanno provato in tutti i modi a emarginarla, ma non ci sono riusciti. Al vertice informale della scorsa settimana, Giorgia Meloni ha dovuto sudare le proverbiali sette camicie per disinnescare un’accelerazione ostile, il tentativo franco-tedesco (con sponda ispano-polacca) di chiudere il pacchetto dei “top jobs” europei e imporlo all’Italia prima delle elezioni legislative francesi, che potrebbero pesare non poco sulle trattative.



Meloni è riuscita a evitare che l’accordo si chiudesse contro e a danno del governo italiano, ma il pericolo non è affatto scampato. In più, le è anche apparso chiaro che questa delicatissima partita destinata a influenzare pesantemente la direzione continentale dei prossimi anni, lei può giocarla solo di rimessa, sfruttando le debolezze altrui.



E la prima debolezza è l’esiguità della maggioranza uscente (PPE-PSE-Liberali), meno di 400 voti rispetto ai 361 necessari a confermare il presidente della Commissione europea. I partiti europei sono galassie gassose, cinque anni fa i “franchi tiratori” furono circa il 15% e Ursula von der Leyen venne salvata dai 15 voti grillini. Il bis di von der Leyen è ancora più a rischio stavolta senza un apporto di altri voti. Quali? O i Verdi, o i Conservatori di ECR, terzo gruppo nell’emiciclo di Strasburgo, formazione di cui la Meloni è leader.

Qui scattano i veti incrociati: socialisti e liberali non vogliono i conservatori, i popolari storcono il naso all’idea che siano determinanti gli ecologisti. Sono queste le condizioni in cui Meloni affronterà il vertice formale di giovedì e venerdì, ultima chance di chiudere prima del voto francese. L’impressione degli osservatori europei è che la premier italiana dovrà muoversi con circospezione, tentando in primo luogo di portare a casa un commissario di peso per l’Italia. Non a caso il nome che circola è quello di Raffaele Fitto, quello che meglio conosce i meccanismi europei.



Circospezione vuol dire giocare su tutti i tavoli, avere amici dentro e fuori il proprio gruppo. Se ne è avuta la prova ieri, nell’incontro con il primo ministro ungherese Viktor Orbán. Fidesz non entrerà nel gruppo dei Conservatori, forse per la consapevolezza di essere considerato “impresentabile”, ma la sintonia con Meloni è stata evidentissima. Condivisione totale delle priorità delle presidenza di turno ungherese, che comincia il 1° luglio, in particolare lotta alla denatalità e all’immigrazione irregolare. Certo, c’è l’Ucraina a dividere, ma Meloni ha dato atto “all’amico Viktor” di avere consentito scelte chiare di sostegno a Kiev tanto in sede NATO che UE.

Che significa tutto questo? Che Meloni e Orbán si parlano e, qualora dovesse servire, i voti ungheresi potrebbero sommarsi a quelli conservatori (e forse anche a quelli di Identità e Democrazia, il gruppo di Salvini e Le Pen). Perché in poche settimane si gioca la direzione continentale prossima ventura, lo ha ricordato la stessa Meloni nella conferenza stampa con Orbán: conferma o meno di politiche come le case green, o il superamento dell’auto a motore endotermico a favore dell’elettrico. Ecco perché chi voterà von der Leyen (o chi per lei) alla guida della Commissione è una questione tanto importante. Ecco perché, in parallelo, la trattativa su composizione e deleghe pesa altrettanto. Il finale non è scontato, le trappole possono essere numerose. Si pensi a un’ipotesi come quella di Enrico Letta alla guida del Consiglio Europeo (il posto attualmente occupato dal belga Charles Michel): in uno scenario in cui c’è stato un tentativo di mettere l’Italia alle corde a Palazzo Chigi non può che essere visto come una provocazione, anche perché Letta non ha lo stesso standing di Mario Draghi, altro nome circolato nelle passate settimane.

Meloni si è sentita pienamente rilegittimata dal voto dell’8 e 9 giugno, a differenza di Macron e Scholz. Ecco perché il braccio di ferro è destinato a continuare, forse anche oltre il vertice europeo del fine settimana. Il fattore tempo potrebbe essere un buon alleato della premier italiana.

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