Vi sono pochi dubbi sul fatto che Ursula von der Leyen sarà confermata come presidente della Commissione europea. La politica tedesca si è presentata all’eurovoto come “candidato di punta” del Ppe e ha vinto la sua partita. Dietro il suo volto i popolari hanno rafforzato il loro primato fra i grandi partiti europei a Strasburgo (socialdemocratici e liberali sono invece arretrati). Non vi sono quindi più motivi per violare ancora la prescrizione del Trattato di Lisbona del 2007: il numero uno dell’Esecutivo di Bruxelles dev’essere legittimato dal voto di 400 milioni di europei.



La questione aperta – sul tavolo dei capi di Stato e di governo dei Ventisette già nel vertice informale di stasera a Bruxelles – è semmai il come von der Leyen riprenderà le redini dell’Ue: da chi riceverà l’investitura, su quale agenda, supportata da quale coalizione all’Europarlamento. Viene al pettine – in un momento di estrema complessità – un nodo strutturale dell’Unione: la Commissione risponde a 27 Governi nazionali (formalmente ancora “uno vale uno”, ma nei fatti no), oppure agli equilibri politici popolari trasversali in Europa, filtrati dal voto democratico dell’europarlamento?



In concreto, stasera a Bruxelles i due leader più importanti – il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz – si presentano entrambi come “anatre (gravemente) azzoppate” dal voto europeo. E sono, rispettivamente, i leader ultimi dei liberali e dei socialdemocratici in Europa. Macron ha dovuto chiamare azzardatissime elezioni anticipate per l’Assemblea legislativa dopo aver raccolto in patria solo un terzo dei voti della destra lepenista. Scholz si sta affannando da giorni a smentire le sue dimissioni – comunque a un anno soltanto dalle elezioni tedesche – dopo aver visto dimezzati i voti Spd in Germania, mentre anche i Verdi (principali partner nella coalizione rossoverde a Berlino) sono stati nettamente battuti.



Sia l’Eliseo che la cancelleria di Berlino appaiono quindi fortini assediati: lontani dal poter realmente esercitare i “pieni poteri” detenuti da quasi 70 anni in Europa. A Parigi, soprattutto, fra tre settimane il presidente potrebbe trovarsi a “coabitare” con un Governo di destra, a guida lepenista; oppure a dover governare con una maggioranza parlamentare dominata dalla sinistra di un Nuovo Fronte Popolare. Ma come il premier israeliano Netanyahu, Macron è parso aver gettato ogni maschera: la sua priorità unica è la sua permanenza al potere, anche contro gli interessi del suo Paese o dell’Europa (eloquente l’accenno di “ricatto dello spread”).

Su questo sfondo non ha stupito che Macron e Scholz abbiano lasciato il G7 italiano (pilotato da una premier di destra conservatrice, vincente all’ultimo voto nel suo Paese e in Europa) lanciando segnali poco equivocabili. Fra auspici di prammatica e spregiudicata tattica politica, Macron ha previsto che per i “top jobs” Ue le scelte vengano effettuate “nei prossimi giorni”: quindi già stasera a Bruxelles. Scholz non ha invece mancato di sottolineare che Giorgia Meloni “è un’esponente della destra estrema, con la quale sono note le differenze esistenti”. Si sta intanto già diffondendo la voce di una “convocazione” preventiva di von der Leyen da parte dei due leader, prima della plenaria di stasera.

Una sintesi previsiva rozza può essere questa: von der Leyen 2 sarà indicata perentoriamente da Parigi e Berlino, con il chiaro mandato di governare l’Europa con la maggioranza esistente (Ppe, S&D, Renew, Verdi) e una strategia conseguente. Le “destre anti-europee” devono continuare a restare all’opposizione della “nostra Europa” (ogni loro eventuale appoggio esterno non sarà richiesto, né sarebbe gradito o in qualche modo oggetto di trattativa). L’organigramma Ue dev’essere modellato per cinque anni da “noi”: a dispetto delle scelte elettorali degli europei e anche se fra settimane o mesi Francia e Germania dovessero essere governate dai nostri avversari. Von der Leyen sarà più che mai l’esecutrice delle nostre direttive (anzitutto quelle ostili a Paesi o forze politiche “d’opposizione”) e può scordarsi di diventare una “premier d’Europa”, cercandosi una sua maggioranza a Strasburgo e negoziando direttamente con i partiti europei o con i premier nazionali.

L’odore dell’arrocco è forte. E l’operazione conta prevedibilmente sull’appoggio tacito della tecnocrazia brussellese. Quest’ultima è chiaramente terrorizzata dal possibile avvento nei centri di Governo Ue dei “barbari” inferociti da tre decenni di crescente autoritarismo a colpi di parametri finanziari o ideologia verde. L’immagine dei palazzi di Bruxelles circondati da trattori, cortei o falò può diventare più che metaforica di una “guerra civile europea”. Ma Macron stesso ha resistito finora per anni – in un Eliseo minoritario – contro una “Francia contro”: i gilet gialli nei “sabati di fuoco” per il prezzo della benzina o i sindacati in piazza contro la riforma delle pensioni. Ma tant’è, almeno stasera Bruxelles sembra chiamata a diventare la capitale di un’Europa “in esilio”. Con la stessa strategia che pare nel cassetto di Macron in Francia: lasciare pure che il Rassemblement National salga al Governo (come FdI in Italia) e poi ricattarlo e boicottarlo da Bruxelles. E anche da Francoforte, dove al timone c’è una politica francese nominata da Macron nel 2019.

In Europa sembra dunque prendere forma su una scala maggiore qualcosa di simile al ribaltone italiano di cinque anni fa: con l’abuso dei poteri europei da parte del centrosinistra franco-tedesco – dopo una sconfitta elettorale – come clava sulle dinamiche democratiche nazionali. E su questo sfondo l’ex presidente italiano della Commissione Ue – il dem Romano Prodi, stratega del ribaltone 2019 fra Roma, Strasburgo e Bruxelles – ha colto la palla al balzo per annotare che l’ultimo voto europeo ha cambiato poco o nulla per la “sua” Europa. L’Ue, quindi, può e deve essere governata sempre da popolari, socialisti e liberali, come “quando c’era lui”, un quarto di secolo fa. Tutti gli altri – per definizione “anti-europei”, “fascisti” eccetera – devono continuare a restare fuori dal Muro di Bruxelles: anche se sono molti e sempre di più, anche se governano in Italia e forse potrebbero farlo in Francia. 

È vero che in Italia il Pd della “bolognese” Elly Schlein – candidata eletta per Strasburgo – ha recuperato voti: ma anche – forse soprattutto – per non aver dato retta ai rimbrotti della “vacca sacra” del centrosinistra italiano. Ecco: sarebbe l’occasione giusta perché i gradimenti o gli sgradimenti sulla futura Commissione europea e sulla sua agenda venissero dalla segretaria dem in carica, “premier ombra” per i prossimi tre anni. Non da Prodi: la cui carriera politica è iniziata negli anni 70 del secolo scorso ed è finita con la prima sconfitta elettorale del neonato Pd. Sedici anni fa.

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