Un sostanziale nulla di fatto ha chiuso la prima giornata di trattative a Bruxelles per la formazione della nuova Commissione Ue. Nessuna decisione reale nel corso della cena tra capi di Stato e di governo dei 27, solo il consolidarsi delle voci della vigilia: Ursula von der Leyen procede verso il secondo mandato, la maggioranza degli ultimi cinque anni (popolari, socialisti e liberali) ha i voti per rieleggerla, nessuna apertura ad avventure pericolose imbarcando l’arrembante nuova destra europea. Resta tuttavia il nodo dei commissari da assegnare ai singoli Paesi.
Lo stallo nasconde però anche una fitta trattativa i cui nodi sono tutt’altro che vicini allo scioglimento. Il primo riguarda la stessa von der Leyen, che cinque anni fa poteva contare su una maggioranza più solida dell’attuale (i liberali sono stati tra i più bastonati dagli elettori europei), eppure fu eletta grazie al sostegno di partiti come i 5 Stelle i cui voti andarono a sostituire un centinaio di franchi tiratori che si rifiutarono di sottomettersi alla disciplina dei partiti maggiori, in particolare tra i popolari. I voti a rischio sarebbero anche oggi attorno al 10%. L’asse franco-tedesco vuole chiudere quanto prima l’accordo per evitare altri pericoli, ma deve comunque cautelarsi. E lo fa con una “conventio ad excludendum”, per tagliare fuori Giorgia Meloni dai posti più prestigiosi in Commissione: il premier polacco Donald Tusk, a nome degli alleati, ha detto chiaramente che non c’è alcun bisogno dei conservatori dell’Ecr per blindare il secondo mandato della von der Leyen. Gli ha fatto eco il cancelliere tedesco, il socialista Olaf Scholz.
E qui viene uno degli altri nodi da sciogliere, che riguarda proprio il ruolo della Meloni. L’Italia può ambire a un portafoglio importante soltanto se appoggerà la nuova maggioranza. E infatti il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che è leader di Forza Italia (Ppe) ed ex presidente dell’Europarlamento, ha aperto ad Ecr chiudendo ai Verdi e così ha potuto chiedere una delle vicepresidenze della Commissione e una delega pesante. Ma per la Meloni appoggiare la von der Leyen significa venire meno alla parola data in campagna elettorale: “Non governerò mai con la sinistra”, ripete da anni, che sia quella casalinga del Pd oppure quella continentale del Partito socialista europeo. Il problema è che la destra di Ecr (non quella di ID, contraria al patto Pse-Ppe), che per giunta è molto frammentata, non ha i voti per sostituire il Pse in un nuovo assetto. Dunque, sostegno alla von der Leyen e commissario Ue importante, a prezzo di perdere credibilità con l’elettorato, oppure coerenza con la propria identità senza però contare nulla in Europa? È questo il dilemma che deve sciogliere la Meloni prima che le cancellerie. Ieri la premier italiana ha avuto numerosi incontri bilaterali a Bruxelles. Ha visto l’ungherese Orbán, il polacco Morawiecki e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.
Di sicuro chi ha perso credibilità è stato Mario Draghi, testa d’uovo delle nuove linee di indirizzo della politica europea e “riserva” eminente delle istituzioni europee. L’ex presidente della Bce ha indicato la Svezia come modello da imitare per avere elevate tutele sociali e al contempo crescita della produttività. Peccato per Draghi – una delle vestali dell’euro – che la Svezia abbia potuto ergersi a Paese esemplare perché è rimasta fuori dall’euro. La nazione scandinava ha utilizzato proprio il differenziale di cambio tra la corona e l’euro per ammortizzare le recenti tempeste economiche e valutarie, applicando svalutazioni massicce. Quello che ha sempre fatto l’Italia finché non è stata introdotta la moneta unica. Le dichiarazioni di Draghi, che non ha perso le speranze di giocare un ruolo di primo piano nei futuri assetti europei, sono già il più clamoroso degli autogol.
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