Ricordiamo oggi il cinquantesimo anniversario di un film epocale nel suo genere, una pietra miliare dell’horror post-moderno. Si tratta di Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre) di Tobe Hooper, regista texano all’epoca semi-esordiente, documentarista proveniente dalla University of Texas at Austin.



Controverso horror di taglio macabro e ammantato da un’atmosfera di pura angoscia, Non aprite quella porta stabilisce una sorta di nuovo standard per i film cosiddetti “slasher”, cioè quelli nei quali un assassino psicopatico dà la caccia alle sue vittime (in genere giovani) in uno spazio delimitato con armi da taglio, nonostante in esso l’orrore vero e proprio – il sangue e l’efferata violenza – sia molto bene suggerito dalla messa in scena ma poco mostrato esplicitamente.



Solo parzialmente ispirato alle gesta (si fa per dire) del serial killer Ed Gein (come accadde per Il silenzio degli innocenti, J. Demme 1991), il film narra di cinque giovani in gita nel sud degli Usa che, durante una sosta in una cittadina del Texas, finiscono nelle grinfie di una famiglia di psicopatici serial-killer, cannibali che macellano le carni delle loro vittime, il cui capo Leatherface (Faccia di Cuoio) massacra le sue vittime brandendo una motosega. Solo una dei cinque giovani riuscirà miracolosamente a sfuggire ai cannibali e sopravvivere, rimanendo profondamente segnata dall’atroce esperienza. Ella, unica testimone dei fatti sanguinari, è – in senso lato – il punto di vista del racconto. Elemento, questo, che ricorre nella migliore narrativa americana, richiamando addirittura l’immenso Moby Dick: l’unico sopravvissuto torna dall’abisso per testimoniare i fatti, il fortunato che il narratore della vicenda/storia si incarica di lasciare vivo appunto per potergli far raccontare la sua e l’altrui (dis)avventura.



Al di la di tale notazione, pur importante nel caratterizzare la resa filmica della vicenda, Non aprite quella porta si configura soprattutto come il palcoscenico su cui il mito americano del New Deal, un tempo vivo e pulsante, si dissolve nel sangue. L’ambientazione rurale contribuisce a dare alla vicenda un senso di desolazione e feroce angoscia, spia di una società che pare aver smarrito la retta via. La violenza evocata dal film è a suo modo figlia del periodo in cui gli Stati Uniti erano impelagati nella disgraziata vicenda bellica del Vietnam, cosa che si è riflessa nella cinematografia statunitense del periodo in vari modi. Direttamente, come ne Il Cacciatore (M. Cimino, 1978), oppure in Tornando a casa (H. Ashby, 1978); ovvero indirettamente, come in Cane di paglia (S. Peckinpah, 1971), e nel presente Non aprite quella porta.

Come accaduto spesso lungo tutta la storia del cinema, il basso budget produttivo – al limite dell’amatoriale – ha indotto gli autori (Hooper e il cosceneggiatore Kim Henkel) a ingegnarsi in soluzioni filmiche originali e meglio funzionali all’istanza di base della loro storia. Soluzioni curiosamente evocate nel titolo italiano del film. La porta richiama un’idea di messa in scena molto cinematografica, produttrice di significati, utilizzata anche in generi più pacati come la commedia sofisticata degli equivoci, di cui soprattutto Ernst Lubitsch è stato un maestro. Cosa accade dietro una porta chiusa? Suggerito e non sempre mostrato per intero, quello che succede rimane così nel regno dell’immaginato, del deducibile, diventando oggetto di speculazione sul senso complessivo del tracciato narrativo del film. In particolare, in un horror come quello del film di Hooper, a tratti molto crudo, raccapricciante, il non detto/visto ma solo indotto funziona da meccanismo di equilibrio della messa in scena complessiva. Inoltre, esso è un elemento che collega lo splatter post-moderno di Non aprite quella porta con la migliore tradizione dell’horror classico. Il mostruoso accennato e non mostrato per intero risulta spesso più significante, inquietante e bello – cinematograficamente parlando – rispetto all’esibizione nuda e cruda, esplicita di sangue fluttuante e membra martoriate.

L’enorme successo di pubblico che Non aprite quella porta ha conosciuto, uno dei massimi nel segmento horror, ha portato come naturale conseguenza – il cinema è anche un’industria – il proliferare di sequel, prequel e remake, sia originali che apocrifi.

Meno scontata, ma altrettanto ampia, la sua ricaduta nei circuiti produttivi della cosiddetta cultura sottile (cioè popolare, di consumo qualitativo). Dal film sono infatti nati negli anni diversi fumetti, videogiochi e merchandising di vario genere. Divenuta iconica la maschera del protagonista Leatherface, vestito con un sanguinolento grembiule da macellaio e armato di motosega. Niente male per un film nato dall’idea semplice di trarre un qualcosa da fatti realmente accaduti, con budget da filmino dell’oratorio. Circostanze, tutte insieme considerate, che testimoniano ancora una volta la forza intrinseca di quell’immortale media chiamato Cinema.

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