Una buona disciplina degli enti non profit è caratterizzata da tre elementi fondamentali: una considerazione attenta delle realtà regolate, il contemperamento dei diversi interessi coinvolti, la semplicità del sistema normativo. In questa prospettiva, il diritto vigente appare ampiamente migliorabile: alle norme “di base” del codice civile – molto scarne e talora poco compatibili con il riconoscimento costituzionale delle formazioni sociali – si accompagna, infatti, una complicata stratificazione normativa, frutto di una legislazione spesso suggerita da preoccupazioni contingenti e, quindi, inevitabilmente foriera di sperequazioni e incoerenze. Assai opportuna, quindi, una riforma intelligente, che muova dalle fondamenta del codice civile e, in conformità al principio di sussidiarietà, riconosca adeguate regole fiscali e di promozione per gli enti che svolgono attività di utilità sociale.
Provando a precisare le questioni di maggior rilievo, un primo problema riguarda come tenere insieme la necessaria libertà degli enti non profit con l’altrettanto necessaria considerazione degli interessi di cui sono portatori gli altri soggetti coinvolti nella loro attività: si pensi, soprattutto, a chi effettua donazioni o aderisce a una raccolta pubblica di fondi, ai creditori, allo Stato e alle sue responsabilità per un’efficiente destinazione delle risorse pubbliche. Il punto di equilibrio non è facile da trovare, pur essendo molto chiari gli estremi da evitare: forme di controllo eccessive o, peggio, ideologicamente orientate, da un lato; spazi di libertà senza una corrispondente responsabilità, dall’altro, idonei a determinare abusi che minino la credibilità dell’intero sistema non profit. Regole moderne di trasparenza contabile e strutture organizzative interne possono rappresentare, in proposito, una buona soluzione, nel rispetto, tuttavia, di due condizioni: un’adeguata applicazione del principio di proporzionalità, così da evitare che gli enti di piccole dimensioni – in Italia largamente maggioritari – siano gravati da costi eccessivi; e una buona dose di realismo, così da privilegiare a modelli astratti di governance una disciplina rispettosa delle singole specificità.
Parimenti cruciale è il tema dell’attività di impresa, soprattutto quando si prenda atto del ruolo svolto dagli enti non profit nei servizi di pubblica utilità e, quindi, della posizione rilevante che l’impresa sociale assume in un moderno sistema di welfare. Al riguardo, l’adattamento della disciplina generale dell’impresa e di alcuni istituti del diritto delle società non pare l’ostacolo di maggior rilievo. Ferme, ovviamente, le misure necessarie a impedire possibili abusi, decisivo è, piuttosto, un intervento che, in attuazione piena del principio di concorrenza, “pareggi il campo di gioco”: utilizzando con intelligenza il sistema fiscale, così da compensare le imprese sociali dei costi connessi allo svolgimento di un’attività di pubblica utilità, non sostenuti, invece, da chi opera esclusivamente in base a criteri di mercato.
Si comprende così perché l’ultimo – e più profondo – nodo da sciogliere riguardi l’individuazione di che cosa debba intendersi per attività di utilità sociale, ponendosi, sul punto, l’alternativa fra indicazioni normative di carattere generale incentrate sullo scopo perseguito o, piuttosto, un’impostazione che identifichi in modo puntuale i settori di attività ritenuti di interesse generale. Nel complesso, quest’ultimo approccio appare preferibile: calato il problema nell’attuale contesto nazionale, meglio una soluzione capace di ridurre ex ante i margini di incertezza, che un’impostazione connotata da un più elevato tasso di discrezionalità e, quindi, possibile fonte di un significativo contenzioso fiscale. Naturalmente, rimane aperta, in questo modo, la questione di come identificare i singoli settori: ed è qui dove il principio di sussidiarietà è destinato a spiegare tutta la sua capacità e portata sistematica.



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