Non si può pensare allo sviluppo sociale e culturale del nostro Paese senza attribuire un ruolo di tutto rilievo al terzo settore. Come declinereste il ruolo del non profit nel comprendere e rispondere alle problematiche sociali e culturali che attualmente animano e agitano il nostro Paese?
Cazzola: «Con una metafora. Quando all’inizio della seconda guerra mondiale un’armata inglese venne imbottigliata dai tedeschi a Dunkerque, il governo di Sua Maestà britannica mandò la flotta a recuperare i soldati. Ma le navi non potevano avvicinarsi più di tanto alla spiaggia perché i fondali erano bassi. Così l’ammiragliato fece appello a chiunque avesse un’imbarcazione leggera. Gli inglesi diedero una grande prova di patriottismo. Chiunque avesse un natante fece a gara per attraversare la Manica e fare la spola tra le grandi navi e la spiaggia. Così, nonostante che l’aviazione tedesca mitragliasse incessantemente la spiaggia, gran parte dell’armata fu tratta in salvo. Senza quella che Churchill definì la “flotta zanzara” non sarebbe mai stato possibile. La metafora è chiara: le navi della flotta rappresentano le grandi strutture di welfare; la flottiglia rappresenta invece il tessuto sociale che consente ai grandi apparati di funzionare e di concorrere alla protezione delle persone e alla realizzazione dei diritti conclamati, ma spesso, nei fatti, negati».
Voglino: «Fra le tante situazioni critiche che la attanagliano, l’Italia ne lamenta due particolarmente gravi. Da un lato una crisi di rappresentanza delle persone e dei corpi intermedi. Dall’altro una crisi della “funzione” dello Stato, incapace di erogare servizi e restio a delegare tale ruolo alle articolazioni della società civile. In questo contesto la giusta valorizzazione del ruolo dell’associazionismo non profit, in tutte le sue articolazioni, costituisce una preziosa – anche se non esaustiva – risposta a questi problemi».
Fassina: « Il nostro Paese per cogliere le opportunità della fase in corso deve rinnovare profondamente il patto che lo ha tenuto insieme. Per troppo tempo, almeno dalla fine degli anni ’70, l’Italia è stata dominata da un “compromesso al ribasso” che ha conciliato piccole e grandi rendite. Un’Italia integrata nell’Europa e nel mondo ha bisogno di costruire un “Patto per lo sviluppo”, in cui il non profit ha enormi potenzialità, se si definisce un quadro chiaro di compiti e responsabilità. Al pubblico, ridefinito e riqualificato, si deve affiancare un settore profit regolato secondo principi di concorrenzialità e un settore non profit, trasparente, complementare ma non di supplenza, all’intervento pubblico».
Peruzy: «La società italiana contemporanea sta vivendo un processo di trasformazione profonda. Bisogni e necessità tradizionalmente soddisfatti attraverso una collaudata rete di rapporti sociali e familiari rimangono inascoltati. A questi si aggiungono esigenze del tutto nuove, che non riescono a trovare risposte adeguate da parte delle istituzioni pubbliche preposte. Il privato sociale, la cui tradizione nel nostro Paese ha radici profonde, grazie alla sua diffusione capillare e alla sua duttilità ha saputo rispondere a questi nuovi e vecchi bisogni. Solo dal riconoscimento dell’essenziale funzione sociale che essi svolgono, può prendere le mosse una corretta riflessione sull’attività degli enti non profit».
Lanzilotta: «La funzione assolta, nel nostro Paese, dagli operatori del terzo settore è la traduzione in fatto del principio di sussidiarietà, uno dei fondamenti etici sui quali poggia il concetto stesso di libertà. Tra libertà e sussidiarietà, infatti, si stabilisce un rapporto naturale intrinseco al concetto stesso di società liberale. Già Hayek denunciava la “tendenza dei governi a portare tutti gli interessi comuni di vasti gruppi sotto il proprio controllo”. Il non profit ha dimostrato di poter essere l’antidoto a tale tendenza.
Poletto: «Certamente il ruolo del non profit non è quello di subfornitore a basso costo di servizi decisi da altri. Le realtà non profit sono le prime a incontrare i bisogni, a rendersi conto dei cambiamenti, a inventare le risposte: che glielo si lasci fare. È questo il loro ruolo. E ci si faccia raccontare quello che ogni giorno scoprono».
La revisione normativa
La normativa che regola il non profit è disomogenea e di difficile comprensione e applicazione. Da molte parti si invoca una revisione di tale normativa, anche alla luce dei lavori di riordino del libro I intrapresi dalla “Commissione Pinza”. Quali sono i “fondamentali” che una revisione normativa del non profit dovrebbe tenere principalmente in considerazione?
Peruzy: «La normativa vigente presenta sicuramente alcuni problemi irrisolti e per molti aspetti risulta inadeguata. Sarebbe invece più opportuno adottare un criterio di individuazione degli enti non profit che tenga conto degli scopi perseguiti piuttosto che dei mezzi utilizzati per raggiungerli. Il perseguimento di scopi non lucrativi e il divieto di distribuzione degli utili, esplicitamente inserito nell’atto istitutivo dell’ente, dovrebbero continuare ad essere valutati come requisiti essenziali, ma ad essi andrebbe aggiunto il riconoscimento dell’ininfluenza dell’attività commerciale eventualmente svolta dall’ente, purché coerente con le sue finalità istituzionali. Questo aiuterebbe ad affrontare le difficoltà implicite nella definizione di ente non commerciale usata finora, utilizzando un criterio che consentirebbe di cogliere meglio la complessità del fenomeno».
Lanzilotta: «Se da un lato la varietà di soggetti che qualificano la realtà “non commerciale” consente di percorrere le strade più disparate dell’impegno sociale e della ricerca culturale e scientifica, dall’altro si assiste all’incapacità, forse irrisolvibile, di regolamentare in maniera organica l’intero settore. Sarebbe però sufficiente operare su due aspetti: la fiscalità degli enti non commerciali e una più ampia defiscalizzazione (o deducibilità) delle erogazioni liberali a favore del non profit».
Cazzola: «Dovrebbe essere la meno invasiva possibile; dovrebbe rispettare l’autonomia del settore, evitare le regolamentazioni pesanti, sviluppare maggiormente l’impiego di volontari anziché favorire il formarsi di organici stabili che poi finiscono per condizionare il complesso dell’attività. Dovrebbe essere impostata sul principio di sussidiarietà».
Poletto: «La disciplina del non profit italiana assomiglia molto ai quartieri spagnoli di Napoli: ci sono delle fondamenta la cui origine è un po’ datata, ma che si sono rivelate solide (il codice civile) e molte costruzioni successive, necessarie per far fronte a un fenomeno in crescita continua. Adesso si tratta innanzitutto di fare un po’ di ordine. La revisione della disciplina del non profit necessita certamente di una maggior chiarezza nella definizione tributaria del soggetto “ente non commerciale”; gli enti non lucrativi, infatti, molto spesso sono attratti dalla disciplina degli enti commerciali, e pertanto trattati e tassati alla stregua di una società lucrativa.
E poi occorre che sia riconosciuta la dignità dell’agire del nostro non profit, anche quando questo agire ha strutture organizzate, personale dipendente e “organizzazione d’impresa”. Dare dignità significa innanzitutto accettare che la tipicità dell’imprenditoria sociale risiede innanzitutto nelle sue finalità, che ne fanno un soggetto profondamente diverso dalle imprese for profit; significa accettare che l’operosità capillare che essa esprime si sottrae alle normali logiche della concorrenza e produce un beneficio per la collettività e per lo Stato. Che lo Stato deve riconoscere, anche accordando i giusti benefici fiscali».
Fassina: «Innanzitutto, andrebbe assunto in termini di principio il carattere non residuale del non profit sul terreno delle attività economiche, sociali e culturali. Poi, si dovrebbe riconoscere la molteplicità delle forme organizzative in cui il non profit si esprime. Infine, sul terreno fiscale, andrebbe rivista la definizione di ente non commerciale».
Voglino: «Il limite principale dell’attuale normativa è di essersi costituita con provvedimenti successivi, rispondenti più ad una logica fiscale che di regolamento civilistico. Almeno sotto il profilo ideale la normativa dovrebbe avere un carattere di maggiore organicità. Il primo punto è quindi la definizione di “pubblica utilità”. Naturalmente essa dovrà incentrarsi sulla possibilità, per l’ente non profit, di dimostrare la rilevanza sociale delle attività che svolge al fine, da un lato, di ottenere agevolazioni pubbliche e, dall’altro, di ricorrere a risorse private, tutelando però la buona fede dei donatori. Dovrà poi prevedersi la possibilità per ciascun ente di trasformarsi in altre realtà non profit, assecondando un normale processo di crescita. Occorre poi rendere compatibile tale normativa con tutte quelle realtà imprenditoriali oggi molto vicine al non profit, ma organizzate in modo diverso (si pensi alla cooperazione sociale). Da ultimo, ai fini fiscali occorrerà rivedere la definizione di ente non commerciale».
Il Paese del 5 per mille
Perchè la legge del 5 per mille ha riscosso così tanto successo? Quale Paese emerge dai dati relativi al 5 per mille 2006?
Fassina: «La legge del 5 per mille ha successo perché consente ai cittadini-contribuenti di esprimere la domanda, presente da molto tempo, di un intervento “altro” da quello pubblico, ma ai fini della salvaguardia dell’interesse pubblico e della attivazione di solidarietà. Altro, ma non alternativo. Nei dati del 5 per mille è difficile leggere un messaggio univoco. Tuttavia, per una parte del Paese, il non profit è decisivo per la qualità della vita pubblica».
Cazzola: «Perché è un intervento diretto, che consente al cittadino di indirizzare il proprio contributo fuori da ogni mediazione burocratica. Basta fare il confronto con lo strumento pubblico per eccellenza, il fondo sociale, e valutarne il concreto funzionamento per capire la differenza culturale che esiste tra i due strumenti di solidarietà. Oppure basterebbe riflettere sul cattivo funzionamento dei comitati regionali del volontariato, abilitati alla ripartizione delle risorse».
Voglino: «La massiccia adesione dei contribuenti al 5 per mille non è una sorta di minivendetta contro un fisco percepito come oppressivo e spesso dispersivo di risorse, ma l’espressione di una consapevolezza profonda delle potenzialità del mezzo. Se l’Italia saprà estendere nelle sue ricadute concrete l’uso del 5 per mille a beneficio della grande galassia del non profit, inteso in senso più ampio e realistico di quanto non consenta oggi la “gabbia” giuridica della natura di Onlus, ciò consentirà non solo di ampliare a dismisura il numero delle risposte a tanti bisogni diffusi nella società, ma in prospettiva potrà rappresentare anche una importante fonte di risparmio per lo Stato, sul fronte della spesa pubblica».
Lanzilotta: «Il successo del 5 per mille è la conferma che quando lo Stato pone le condizioni e il cittadino è libero di decidere – senza subirne un ingiusto aggravio – manifesta tutto il suo favore per le attività del non profit».
Peruzy: «Il sorprendente successo della raccolta realizzata attraverso lo strumento del 5 per mille rivela quanto siano vivi l’interesse e la voglia di partecipazione dei cittadini alle scelte della politica. È quindi, a suo modo, un esercizio di democrazia. È però anche, se non soprattutto, il riconoscimento da parte della società italiana, del prezioso ruolo sociale che svolgono gli enti non profit. Il variegato ventaglio di soggetti consapevolmente scelti dai cittadini rispecchia una società che non solo è cosciente dei propri bisogni, ma che è anche in grado di individuare i soggetti che a questi rispondono e di premiarli e sostenerli».
Poletto: «La legge del 5 per mille ha in sé un principio molto interessante: lo Stato destina al privato una parte del suo gettito, non sulla base di una sua valutazione, ma sulla base di ciò che le persone decidono. I dati ci hanno mostrato un paese creativo e che ama la libertà. Perciò: che ci sia lasciato il 5 per mille. O meglio, che ci sia lasciato così com’era nel 2006, senza un tetto di spesa e con il ripristino di tutti i soggetti originariamente previsti».