Pessimisti e ottimisti sembrano divisi nel giudizio sulla condizione attuale della crisi economico-finanziaria globale. Secondo i primi siamo ancora nel pieno della tempesta e anzi paesi come l’Italia, normalmente distanziata dalle “locomotive” economiche a causa di una certa inerzia strutturale, ancora deve subire le conseguenze più gravi. In ogni caso, se anche si dovesse debolmente invertire il segnale, sarebbe comunque una jobless recovery, una ripresa senza occupazione.



Al contrario, gli ottimisti vedono i primi segnali della ripresa fare capolino tra le stime e gli indicatori pubblicati dagli istituti economici mondiali. Il peggio, secondo questi ultimi, sarebbe ormai alle spalle e ci attenderebbero anni di seppur modesta, ma stabile ri-espansione.

Pur esistendo, perciò, valutazioni diverse sulla prognosi, su un punto oggi tutti sembrano essere d’accordo: nulla sarà come prima. Questa crisi globale, infatti, ha svelato in maniera incontrovertibile la totale inconsistenza di due grandi mitologie giuridico-economiche che hanno dominato la scena in questi ultimi anni: da un lato, il fallimento dell’ “auto-regolazione” dei mercati (soprattutto finanziari) e, dall’altro, il fallimento della “etero-regolazione” prodotta dai singoli Stati e dagli attuali organismi interstatali di vigilanza.



Entrambi questi miti, a ben vedere, si sono rivelati affetti dalla stessa deficienza: l’incapacità di garantire il bene comune. Entrambi questi miti – tanto l’autonomia del mercato, quanto l’eteronomia dello Stato – si sono mostrati viziati dal più antico e resistente dei mali: non l’errore, ma la “parzialità”; cioè, l’incapacità a porre in essere condizioni effettive perché si realizzi non un interesse particolare, ma quello che la Costituzione italiana chiama “l’interesse generale”.

Registrati, dunque, i fallimenti, resta aperta la questione di fondo: da dove ripartire? In realtà, già prima della crisi, il mondo cosiddetto “profit” aveva iniziato a interrogarsi sulla insufficienza delle sole logiche di guadagno a breve periodo e di massimizzazione del profitto per spiegare il fenomeno dell’impresa; si pensi, ad esempio, al tema della corporate social responsability; questaprospettiva, se correttamente intesa, prima che un valore prescrittivo (“occorre compensare le esternalità negative prodotte dall’impresa”), ha un chiaro valore descrittivo (“ogni impresa esercita, volente o no, una responsabilità rispetto al contesto sociale in cui opera”).

Il rischio, prima della crisi attuale, era però che questo “valore sociale” rimanesse comunque confinato all’esterno del “core” della impresa, pur sempre identificato con la produzione del profitto. Il primo e fondamentale elemento che la stessa realtà dei fatti oggi impone è “che a livello sia di pensiero che di comportamenti, non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà, la responsabilità, non possono venire trascurati e attenuati, ma anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e debbono trovare posto anche nella normale attività economica” (nostro il corsivo).

Questa illuminante e lucida espressione è di Benedetto XVI, (dalla Enciclica “Caritas in veritate”, par. xx). Il dato assolutamente nuovo sta nell’inversione tra la regola e l’eccezione: il principio di gratuità e fraternità fanno parte della “normale” attività economica, sono un aspetto che appartiene, diremmo, alla struttura ontologica del mercato e non va “aggiunto” o “corretto” successivamente con una operazione esterna ed, alla fine, residuale.

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Questa crisi, azzerando l’utile di numerosissime aziende ha costretto gli imprenditori e gli studiosi a chiedersi, prima ancora di come trovare la strada per tornare in attivo, che cosa sia veramente l’“utile” dell’impresa. Il non profit non è un settore composto da aziende che non vogliono o, peggio, non sanno, produrre utile, ma è una realtà fatta da aziende che hanno una diversa idea di “utile”, maggiormente comprensiva e, alla prova dei fatti, più efficiente perché in grado di contabilizzare anche il valore sociale aggiunto.

 

Sarebbe davvero una beffa atroce se una crisi di queste dimensioni partorisse il topolino di una gattopardesca restaurazione di poteri e regole solite, casomai travestite per l’occasione. La sfida reale, invece, è il cambiamento del punto di partenza, riconoscendo che ogni azione economica e sociale ha in sé una potenzialità di bene comune ed è compito delle condizioni esterne (regole e istituzioni) favorire lo sviluppo di queste potenzialità e correggere le distorsioni.

 

Occorre ripristinare un dialogo fruttuoso tra questi due mondi: da un lato, il non profit deve interiorizzare l’efficienza, dall’altro il profit la gratuità. È una sfida che coinvolge entrambi i soggetti con i quali il non profit deve quotidianamente confrontarsi: sia lo Stato che il mercato. In verità, c’è qualcosa di ancora peggio dei danni economici devastanti prodotti da questa crisi, ed è il fatto che essa sia accaduta invano, cioè senza indurre cambiamenti strutturali nel fenomeno dell’impresa e del contesto istituzionale in cui essa opera.

 

In questo senso, uno dei fattori da ripensare strutturalmente è, proprio, il ruolo del non profit, cioè di tutti quei soggetti che non siano riconducibili né alla semplice sfera privata, né a quella pubblica, ma siano caratterizzati dal farsi carico imprenditorialmente di “prestazioni” di bene comune o di attività di “interesse generale” (per riprendere l’espressione dell’art. 118 della Costituzione).

 

In primo luogo, occorre rendersi conto che questo settore esiste ed è una quota rilevante dell’economia reale con i suoi oltre 700.000 addetti e 250.000 aziende. Ma in secondo luogo, occorre riconoscere che questo settore della nostra economia è direttamente espressivo di quel principio di sussidiarietà che – questa crisi ci insegna – non può più essere considerato un mero “correttivo” esterno del mercato o dello Stato – a seconda dei punti di vista.

 

Il principio di sussidiarietà è oggi il motore fondamentale di un economia di mercato capace di reale autoregolazione e di uno Stato in grado di realizzare una regolazione effettivamente rispettosa della libertà sociale. Un interessante riconoscimento a conferma di questa direzione è il premio Nobel per l’economia conferito per il 2009 a Elinor Ostrom.

 

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La studiosa americana, come recita la motivazione del prestigioso premio, “sfidando le teorie economiche convenzionali”, ha mostrato quanto sia infondata l’idea secondo la quale solo la proprietà individuale ovvero l’imposizione di una regola statale realizza efficacemente la protezione di un bene o di una risorsa che più persone hanno in comune; e questo perché quando si ha una risorsa un bene in uso comune questo spingerebbe inevitabilmente ognuno a sfruttare senza limiti la risorsa stessa portandola alla distruzione, con la conseguenza che tali commons debbano essere inevitabilmente “o privatizzati o regolati” dallo Stato.

 

La Ostrom, invece, ha mostrato come gli uomini siano perfettamente in grado di provvedere a una autonoma regolazione dell’uso dei beni e delle risorse che hanno in comune senza dover ricorrere necessariamente allo Stato o alla privatizzazione, attraverso forme di “sussidiarietà normativa” capaci di “promuovere risultati di successo”.

 

(Per gentile concessione della Rivista Non Profit)