Da tempo in Francia assistiamo a rivolte sempre più insistenti da parte di giovani e giovanissimi, come quelle seguite all’uccisione di Nahel da parte di un poliziotto. Nahel era un ragazzo di 17 anni che stava studiando per diventare elettricista. Era la seconda volta che non si fermava davanti a un posto di blocco. Le indagini sono in corso e dovranno districarsi tra le molte ricostruzioni del fatto accaduto lo scorso 27 giugno. Molti commentatori hanno fatto riferimento alla Rivoluzione francese, ai movimenti del ’68, alla sfida dell’integrazione, alla politica del governo… ma guardando bene a ciò che è accaduto, sospendendo il giudizio su responsabilità e colpe, sorge una domanda: cosa spinge un ragazzo di 17 anni a non fermarsi? E, come lui, tutti quelli che sono scesi in piazza e che stanno manifestando in queste ore? Perché non si fermano? Perché si muovono?



Non credo che le varie analisi sociali, politiche, culturali siano in grado di affrontare di petto queste domande. L’uccisione di Nahel è stata la goccia che ha fatto traboccare un invisibile vaso che ha scatenato tutto quello che adesso vediamo eccome. Non si poteva più tacere, non si poteva più stare fermi, non si poteva più aspettare. Ma per fare cosa? Per dire cosa?



Viene in mente un racconto della Bibbia: “Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: ‘Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco’. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: ‘Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra’. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: ‘Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro’. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra” (Gn 11, 1-9).



Questo testo smaschera una falsa unità creata dagli uomini. Dio vede che, in effetti, gli uomini erano riusciti a diventare un solo popolo con una sola lingua, ma subito giudica ciò che vede come “l’inizio della loro opera”. C’è un trucco in quella apparente unità. Stanno insieme, ma non sono uniti. Costruiscono insieme come complici, non come amici. Un veleno si è infilato tra di loro, impercettibile, tanto che non se ne accorgono nemmeno. Si ritrovano così vittime della loro stessa opera.

Don Giussani raccontava spesso un altro esempio. “Immaginiamo il mondo come un’immensa pianura, in cui innumerevoli gruppi umani sotto la direzione dei loro ingegneri e architetti s’affannino con progetti di forme disparate a costruire ponti dalle migliaia di arcate che siano raccordo tra la terra e il cielo, fra il luogo effimero della loro dimora e la ‘stella’ del destino. La pianura è affollata da uno sterminato numero di cantieri in cui si svolge il lavoro febbrile. Arriva a un determinato momento un uomo e con lo sguardo abbraccia tutto quell’intenso lavoro di costruzione e, a un certo punto, egli grida: ‘Fermatevi!’. Tutti via via, a cominciare dai più vicini, sospendono il lavoro e lo guardano. Egli dice: ‘Siete grandi, e nobili, il vostro sforzo è sublime, ma triste, perché non è possibile che voi riusciate a costruire la strada che unisca la vostra terra al mistero ultimo. Abbandonate i vostri progetti, posate i vostri strumenti: il destino ha avuto pietà di voi; seguitemi, il ponte lo costruirò io: io infatti sono il destino’. Proviamo a immaginare la reazione di tutta quella gente di fronte ad affermazioni simili. Gli architetti per primi, i capi-cantiere, gli artigiani migliori istintivamente si troverebbero a dire ai loro operai: ‘Non fermate il lavoro, coraggio: rimettiamoci all’opera. Non vi rendete conto che quest’uomo è un pazzo?’. ‘Certo, è pazzo’ – echeggerebbe la gente –. ‘Si vede che è pazzo’ – commenterebbe riprendendo il lavoro secondo l’ordine dei suoi capi –. Alcuni soltanto non distolgono da lui lo sguardo, ne sono profondamente colpiti, non obbediscono come la massa ai loro capi, gli si avvicinano, lo seguono”.

La portata di ciò che sta capitando credo sia ben descritta da questi testi. L’alterativa è sempre la stessa, per la Francia come per ciascuno di noi. Costruire un mondo come opera delle nostre mani o seguire Colui che ha già costruito tutto perché lo potessimo riconoscere e al cui servizio mettere le nostre mani. Quei ragazzi forse manifestano perché non hanno incontrato nessuno come eco di Colui che dice loro: “Fermatevi! Abbandonate i vostri progetti, posate i vostri strumenti: il destino ha avuto pietà di voi; seguitemi, il ponte lo costruirò io: io infatti sono il destino”. Può darsi che finora abbiano sentito il contrario: che il destino non c’è, che tutte le ipotesi sono uguali, che ogni costruzione è identica a quell’altra, che occorre imporre la propria opera, che l’importante è farsi sentire… e gridano, cercano, non si fermano. Chi potrà mai raccogliere la vera sfida lanciata da quei giovani e giovanissimi ragazzi? Sfida il cui cuore sfugge anche a loro. Ma noi, così come siamo, abbiamo ancora il coraggio di stare davanti all’urto di queste domande? La questione è totalmente spalancata.

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