“Tutto vorrei, tranne che leggere ‘GayUno’ o’RaiUno gay’. Basta piccolezze, bassezze. Di fronte alle persone non mi chiedo mai con chi vanno a letto… io mi occuperei piuttosto del livello culturale delle persone, giudicherei i conduttori per la loro professionalità“. Cosi si è espresso il direttore di Raiuno Stefano Coletta in una conferenza stampa, commentando le esternazioni di Mario Adinolfi a proposito di un presunto processo di omosessualizzazione della prima rete del Servizio Pubblico, di cui hanno poi parlato diversi giornali. Argomento ripreso sui social network dal discografico Alberto Salerno: “Ma com’è che su Rai Uno ci sono un sacco di gay? Che è cambiato qualcosa? E poi dicono che la lobby gay non esiste“.
Devo dire che concordo al cento per cento con il pensiero espresso dal direttore Coletta. Infatti, è del tutto scorretto giudicare le persone a seconda del loro sesso, del loro orientamento sessuale o del colore della loro pelle. Nella mia vita ho avuto la fortuna di godere dell’amicizia e della stima di Giovanni Testori, Lucio Dalla, Franco Zeffirelli, oltre che di diversi amici omosessuali assai meno noti. La storia abbonda di grandi artisti, pittori, poeti, scrittori, registi che hanno lasciato un segno indelebile nel patrimonio culturale dell’umanità. Quindi, nulla quaestio. Ma averne, come loro…
Il problema è che da un po’ di tempo, indubbiamente sotto la spinta di una giusta rivendicazione per le pari opportunità e la non discriminazione, stiamo assistendo a una crescente stortura, che l’Economist ha definito “La dittatura della tolleranza”: “Le quote costringono le aziende e le università a valorizzare di più le identità che la competenza. Una orwelliana ‘polizia del pensiero’ censura le opinioni politiche e sociali, la lingua, e persino i costumi di Halloween. Qualsiasi opinione contraria all’ortodossia libertaria si scontra con una forma di tolleranza zero che etichetta chi la esprime come razzista, omofobo o transfobico. I gruppi di minoranza stanno imponendo i loro valori e i loro stili di vita a tutti gli altri”.
Così, in nome delle quote e anche di una innegabile lobby assai efficiente, il panorama televisivo è sempre più affollato da omosessuali che oltre a fare il loro lavoro, promuovono a ogni piè sospinto la propria visione del mondo, ostentando il proprio modo di essere, cosa che nessuno dei grandi artisti della storia si è mai sognato di fare, parlando piuttosto con le proprie opere. Così oggi ci dobbiamo sorbire anche autori, conduttori, cantanti, artisti di assai modesta caratura che spuntano ovunque solo perché fanno tendenza secondo il pensiero unico politically correct. O perché – come si sussurra nei corridoi – sarebbero i nuovi raccomandati da “dove vuolsi colà dove si puote ciò che si vuole”, il luogo di potere in cui è sempre più presente questa tipologia di persone.
Per questo risulta particolarmente significativo ciò che ha detto in proposito un artista intelligente come Maurizio Coruzzi, alias Platinette, che ha voluto fare della propria omosessualità una caricatura: “Non mi piace la lamentela del mondo omosessuale quando continua a dire che è vessato ed emarginato. Non è più così. La visibilità degli omosessuali non è mai stata così alta come in questo momento e a volte, se posso, fin troppo”.
Ecco perché è lecito domandarsi come mai ci dovremmo sorbire sedicenti massmediologi, tipo una macchietta con la zeppola come Fiorillo, o il suo mentore (appena un po’ meglio) Pierluigi Diaco, per non parlare di un autore/conduttore come Fabio Canino, di cui lo spessore mi sfugge (ma è certamente un mio limite). Parlando di visione del mondo diffusa urbi et orbi, ricordo che una domenica mattina a RadioUno, proprio Canino si dilungava in descrizioni dettagliate di un backstage di un film porno di Moana Pozzi, con particolari a suo dire gustosi. Con lo stesso stile, i simpatici ma oramai ripetitivi conduttori del Ruggito del Coniglio, non si astenevano dallo sfottere il canto gregoriano con strofe a base di consigli sul sesso… nonostante quel giorno fosse un Giovedì Santo.
E questi sono solo scampoli di una generalizzata mancanza di rispetto, di una crescente diffusione di relativismo etico e di una costante promozione dell’ideologia gender, che è virus oramai penetrato negli spettacoli come nelle fiction, e che da un po’ emerge anche nei programmi più raffinati, meglio montati e meglio condotti della Rai: quelli in cui l’ottima Barbara Carfagna ci mette al corrente delle novità del digitale e dell’intelligenza artificiale. Perché l’accurato racconto delle novità tecnologiche si accompagna sempre più spesso ad un convinto riduzionismo, ad una costante promozione di teorie transumaniste e ad una incrollabile fede nella Singolarità come inevitabile destino dell’uomo.
Fra i tanti esempi si può citare l’incresciosa intervista, nel programma “Codice, la vita è digitale”, a una ricercatrice dell’Istituto Italiano di Tecnologia che illustrava, con un preoccupante sguardo allucinato, un metodo di rimozione degli stereotipi negativi (secondo il pensiero unico del momento, of course) tramite l’elettrostimolazione cerebrale. Roba che neanche gli scienziati criminali di Hitler avevano saputo immaginare.
L’abominio della desolazione, come direbbe la Bibbia, è stato però raggiunto nell’ultima puntata dello speciale TG1 dedicato all’identità digitale, in cui l’ideologia gender, che Papa Francesco ha definito “la modalità più specifica con cui si manifesta il male oggi… perché auspica una nuova torre di Babele” è stata presentata come uno dei traguardi più avanzati dell’era contemporanea.
Riporto qui la trascrizione letterale del testo, letto con accento assai assertivo, affinché se ne possa percepire la gravità :”Il digitale consente ai giovanissimi di oltrepassare le identità rigide di genere. Se per le generazioni passate l’identità di genere era biologica, in un contesto di possibilità di assumere identità multiple nelle reti, le giovani generazioni possono vivere una condizione di opzione sessuale temporanea. Esistono il maschile, il femminile ma anche il genere non binario, il non conformista, e così via“.
A supportare la presunta validità di questi enunciati della teoria gender, è stato intervistato il direttore di Vanity Fair. Ma come! Uno si sarebbe aspettato almeno un neuroscienziato, uno psichiatra, e invece no, si è scelto di interpellare su tale delicato argomento il fluido direttore di una rivista di gossip e di tendenze modaiole. Che ha sentenziato: “I ragazzini della generazione Z (ragazzini mica tanto, hanno 21 anni, n.d.a), stanno cercando di scrivere un nuovo linguaggio del genere…ad esempio il gender fluid, o addirittura l’a-gender che rifiuta l’anima binaria“. Incalzava Barbara Carfagna con un inno alla transizione di genere, mentre sullo schermo compariva un balletto di efebi seminudi intenti a occhieggiarsi e a strusciarsi: “L’esempio concreto con cui il digitale si fonde con la nostra identità è la transizione di genere. È comune nella comunità transgender rivolgersi alla comunità digitale (le ripetizioni sono nel testo, n.d.a.) per trovare supporto e sostegno prima, durante e dopo la transizione. L’identità digitale nella forma di un profilo di social media o di avatar diventa una componente integrante dell’essenza. Le nuove generazioni vivono il processo di identità non più come qualcosa da preservare, ma come una gabbia da cui fuggire“. Sic.
Così è stata sistemata una questioncella fondamentale come l’identità, che da sempre è alla base della cultura dei popoli, dei rapporti umani ma anche economici, industriali e commerciali, insieme a un bel po’ di incontrovertibili leggi di natura.
Che dire? Basta leggere e rileggere queste righe per rendersi conto, con preoccupato allarme, che sulla rete ammiraglia della Rai è andato in onda, per fortuna ad ora tarda, “il sonno della ragione che genera mostri”.
(Diversi spunti di questo articolo sono tratti da “La sindrome del criceto” (Edizioni La Vela 2020), in cui sono approfondite le problematiche del transumanesimo, della singolarità e dell’ideologia gender)