Come anticipato la settimana scorsa su questa testata, il Governo americano ha raggiunto il suo “tetto del debito” di 31,4 trilioni di dollari, il che significa che non può più prendere in prestito denaro emettendo obbligazioni. Il Segretario al Tesoro americano, Janet Yellen, ha chiesto ai legislatori di “agire prontamente” per alzare il limite.
È improbabile che i repubblicani, che ora controllano la Camera dei rappresentanti, lo facciano a meno che il Presidente Joe Biden non accetti tagli alla spesa federale, cosa che non sembra disposta a fare. È, quindi, iniziata una trattativa tra Casa Bianca e Congresso che, speriamo, porti presto a una soluzione perché una crisi del debito federale Usa non potrebbe non coinvolgere i mercati internazionali, colpendo anche i Paesi dell’Unione europea le cui pubbliche amministrazioni sono più indebitate, Italia in primo luogo.
Non è unicamente la situazione americana a preoccupare. Si prefigura, pure a ragione dell’apprezzamento del dollaro, una crisi debitoria di numerosi Paesi in via di sviluppo quale quella degli anni Ottanta quando l’ex Presidente del Consiglio Italiano Bettino Craxi (di cui in questi giorni ricorrono i trent’anni dalla morte in esilio) venne chiamato dalle Nazioni Unite a proporre soluzioni (che allora vennero approvate dall’Assemblea Generale Onu e, poi, applicate).
Dobbiamo preoccuparcene? Ritengo di sì. La posizione americana non è essenzialmente cambiata da quando, all’inizio degli anni Settanta, l’allora Segretario al Tesoro disse: «Il dollaro è la nostra moneta e il vostro problema». Gli Usa sono abbastanza al riparo dai debiti dei Paesi in via di sviluppo. Ma l’Ue, e l’Italia?
Nel silenzio dei media, giunge in queste settimane un’indicazione dalla Banca d’Italia: la pubblicazione di un lavoro di Raffaele De Marchi del servizio studi: Debito pubblico nei Paesi in via di sviluppo: situazione attuale, processi di ristrutturazione e lezioni dal passato.
Il lavoro analizza le vulnerabilità del debito pubblico nei Paesi a basso reddito e valuta le iniziative intraprese dal G20 per fornire sostegno finanziario e facilitare la risoluzione dei casi di insostenibilità del debito. Svolgendo anche un confronto con passate iniziative di riduzione del debito, si esaminano i principali ostacoli ai processi di ristrutturazione nell’attuale contesto caratterizzato da un’elevata eterogeneità della composizione del debito per strumento e tipo di creditore. La presenza di un creditore bilaterale ufficiale che detiene un’esposizione molto rilevante e l’accresciuto peso dei creditori privati rendono difficile replicare le soluzioni applicate in passato per ridurre il debito dei Paesi a basso reddito. Le difficoltà sono dovute, inoltre, a un disaccordo tra i Paesi avanzati e la Cina riguardo alla ripartizione delle perdite derivanti dalle ristrutturazioni, che si manifesta anche in un diverso orientamento sul ruolo che deve essere ricoperto dalle banche multilaterali di sviluppo.
Da pochi giorni, l’Economist Intelligence Unit ha inviato ai propri abbonati un’analisi secondo cui 53 Paesi sono vulnerabili, o perché inadempienti sui loro debiti o perché ad alto rischio di crisi da indebitamento. Se è vero che la maggior parte è tra i più poveri del mondo, anche un numero crescente di economie a medio reddito si trova ad affrontare gravi problemi di debito. Secondo la Banca mondiale, quasi il 60% di tutti i Paesi emergenti e in via di sviluppo sono diventati debitori ad alto rischio. I 53 Paesi in difficoltà rappresentano il 18% della popolazione mondiale – più di 1,4 miliardi di persone -, ma solo il 5% del Pil globale. Questo onere più elevato è uno dei diretti risultati della pandemia. Inoltre, l’inasprimento delle condizioni finanziarie ha reso molto più difficile per i Paesi in via di sviluppo, che già faticano ad accedere ai finanziamenti, ristrutturare i propri debiti ed evitare l’insolvenza.
Il deprezzamento della valuta è un altro rischio. Questo problema è particolarmente pronunciato in America Latina e nei Caraibi e nell’Africa sub-sahariana, dove il rapporto tra debito estero ed esportazioni dovrebbe raggiungere rispettivamente il 167% e il 147% nel 2023. In risposta, a quella che si presenta come un’emergenza prossima ventura, è stata introdotta, dal G20, la Debt service suspension initiative (Dssi). Con il sostegno della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, tra maggio 2020 e dicembre 2021 la Dssi ha sospeso i pagamenti dovuti da 12,9 miliardi di dollari di 48 Paesi a basso reddito. Tuttavia questa è stata solo una soluzione temporanea: la Dssi non ha ridotto i livelli di debito e ha attratto una partecipazione minima da parte dei creditori del settore privato.
All’inizio di quest’anno, la Banca mondiale e il Fmi hanno predisposto un piano d’azione per migliorare il programma, con quattro raccomandazioni: tempistica chiara, sospensione dei pagamenti del debito durante i negoziati, definizione di processi e regole chiari, e requisiti di ammissibilità ampliati. Il Piano prevede correzioni a lungo termine, non molto diverse da quelle contemplate nella Recovery Facility del Next Generation Eu e, da lì, incorporate nei Programmi nazionali di ripresa e resilienza.
Viene spontaneo chiedersi: invece di creare una nuova struttura o parcheggiare per sempre il debito dei Paesi europei a maggior rischio presso la Banca centrale europea snaturandone obiettivi e compiti o trasformare il Meccanismo europeo di stabilità in una cassaforte per il debito – idee che vengono lanciate qua e là in queste settimane – perché non utilizzare questa strumentazione anche per il debito eccessivo nell’Eurozona?
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