La vicenda della maestra Ilaria Salis portata in tribunale a Budapest con “i ferri” ha giustamente suscitato indignazione e sottolineato la poca furbizia del governo di Orbán che – se avesse evitato quelle immagini, facendo accompagnare in aula la detenuta senza catene e inutili manette – avrebbe potuto gestire il caso giudiziario senza offrire un punto debole di immagine proprio nel momento in cui aveva bisogno di “sponde” a Bruxelles. Essendo la Salis un’estremista di sinistra, si è subito mobilitata la solidarietà con il coro delle accuse per il comportamento “disumano” e le condizioni nelle carceri magiare. Il caso ha ovviamente preso così una piega tutta politica e come tale finirà, ma ha anche aperto (forse) qualche interrogativo sulla situazione di tanti detenuti italiani all’estero di cui purtroppo si sa poco o nulla.



Nei 18 anni in cui sono stato parlamentare in Commissione Esteri occupandomi degli italiani nel mondo mi sono interessato spesso di nostri connazionali detenuti, visitandoli in carcere e seguendone le vicissitudini, dal Ruanda al Venezuela, dall’India all’ Egitto o nei penitenziari USA, passando da quelli bielorussi alla Turchia.  Spesso ho visto cose agghiaccianti e vissuto avventure pericolose (come in Venezuela, dove in carcere sono normali le sparatorie e così i detenuti – riuniti in bande – si barricano nelle rispettive celle) ma – purtroppo – questa tematica è ai margini delle attenzioni diplomatiche e lasciata spesso alla sensibilità personale dei nostri funzionari all’estero. D’altronde se sei incarcerato in un Paese africano passano a volte dei mesi prima che qualcuno sappia di te e ben raramente – e comunque dopo tempi infiniti – un nostro console passerà a trovarti, anche perché (ma questo non lo sa quasi nessuno) in moltissimi paesi del mondo non ci sono nostre ambasciate o consolati, ma al più solo consoli onorari che si occupano di tutt’altro e non hanno ovviamente una immunità diplomatica.



Sono oltre un migliaio gli italiani detenuti al di fuori dell’UE, ma mentre la notifica di detenzione alle nostre autorità viene rallentata dagli oscuri meandri della burocrazia – che spesso in Africa ha tempi ben peggiori dei nostri – oltre alle consuete violenze fisiche se ti chiudono in un carcere straniero spesso ti ritrovi senza soldi, senza collegamenti, senza difesa. In Egitto sono normali celle con 50-60 detenuti, in Venezuela i penitenziari sono appunto di fatto controllati dalle bande interne, mentre vi sconsiglio la visita a un carcere indiano. Altro che garanzie o assistenza diplomatica: nulla. In Ruanda ho visto carceri che erano semplicemente tendopoli circondate da filo spinato senza neppure l’acqua corrente.



L’iniquità, le violenze e la corruzione sono poi di solito endemiche e più è basso il livello di vita di un Paese più i detenuti sono considerati la feccia umana su cui tutto è permesso. Certo, se sei ricco e te lo puoi permettere diventerai il pupillo del corrotto direttore del carcere, ma a volte – se neppure i tuoi sanno che sei in galera – è impossibile perfino collegarsi con l’esterno per chiedere aiuto. Ricordo l ’impegno di un giovane sacerdote milanese con il quale avevamo organizzato “Soccorso Icaro”, ovvero un’assistenza per gli italiani rilasciati dal carcere in Venezuela in libertà condizionale, ma obbligati a rimanere nel Paese fino ai processi di solito per incidenti stradali o piccoli traffici di droga.

Spesso, soprattutto in Africa e America Latina, lo straniero è tra l’altro accusato e incarcerato senza alcuna colpa, ma solo per un ricatto economico in vista di una “mancia” ai giudici o ai secondini e così resti detenuto finché la famiglia non paga un vero e proprio riscatto, di solito attraverso avvocati corrotti più dei giudici e che hanno tutto l’interesse affinché il cliente resti a lungo nel bisogno. Forse ci si immagina che un italiano detenuto sia in qualche modo aiutato e protetto, ma pochi sanno come siano minime le nostre presenze diplomatiche “sul campo” e spesso passano settimane e mesi prima che un governo africano comunichi all’ambasciata italiana (che di solito è in un altro Paese) l’avvenuto arresto di un connazionale che nel frattempo è carne da macello, purtroppo spesso in tutti i sensi.

D’altronde se una nostra ambasciata-tipo da quelle parti ha solo due diplomatici (di solito l’ambasciatore ed un suo giovane vice) e deve coprire molti Paesi contemporaneamente, difficile che almeno il “vice” possa arrivare a visitare un italiano detenuto, magari in un piccolo carcere di provincia a centinaia o migliaia di chilometri dalla nostra più vicina sede diplomatica. Le avventure dei nostri turisti in Madagascar (Paese in cui la nostra ambasciata è stata chiusa dipendendo ora da Pretoria, in Sudafrica, che contemporaneamente “copre” sette diversi Paesi in tutto il sud del continente e che al Madagascar non è neppure collegata direttamente via aerea), come quelle in altri Paesi, hanno spesso portato a proteste ed inascoltate interrogazioni parlamentari.

Spesso è poi difficile la cooperazione all’estero tra gli stessi paesi della UE, in una sorta di malcelata rivalità, mentre sarebbe molto più logico ed economico che – soprattutto nei piccoli Paesi africani o asiatici – una rappresentanza unica ma efficiente dell’Unione Europea seguisse le vicende di tutti i cittadini europei, compresi quelli detenuti, come già in teoria dovrebbe essere, ma che nella pratica, spesso, purtroppo non avviene. Tematiche di cui si sa poco o nulla, che raramente vanno sui giornali, ma hanno sconvolto le vite di molte famiglie quando hanno scoperto, spesso dopo lungo tempo, che il famigliare scomparso era semplicemente detenuto iniziando, per cercare di liberarlo, un vero e proprio calvario.

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