Dieci anni fa due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, venivano arrestati dalle autorità indiane con l’accusa di avere ucciso incidentalmente due pescatori locali durante una legittima operazione di pattugliamento.
Da quel momento furono presi in ostaggio e iniziarono lunghe negoziazioni definitivamente chiuse il 9 aprile dello scorso anno con 1,1 milioni di euro pagati dallo Stato italiano a titolo risarcimento danni.
Cosa c’entra tutto questo con Piombino e più in generale con la siderurgia italiana? È un parallelismo un po’ forzato, ma anche per quanto riguarda l’ex Lucchini di Piombino e l’ex Ilva di Taranto sono quasi 10 anni che sono ostaggio di due aziende indiane e, nonostante estenuanti trattative, non se ne viene fuori in modo chiaro. In un articolo precedente ci eravamo soffermati sul caso ex Ilva che anche in questi giorni, con la richiesta di Cigs per 3.000 persone, vede confermata la nostra analisi. Oggi invece vogliamo approfondire la vicenda della Acciaieria di Piombino.
Tutto ha inizio nel 2005 quando l’oligarca russo Alexei Mordaschov (quello al quale in questi giorni è stato sequestrato ad Imperia il maxi yacht Lady M) acquisisce il controllo della Lucchini per poi abbandonarla al suo destino dopo soli cinque anni a seguito della crisi finanziaria generata dal default della Lehman Brothers. Dopo una lunga e lenta agonia, l’azienda va in amministrazione straordinaria alla fine del 2012 e per Piombino inizia una vera e propria via crucis fatta di paure, speranze, illusioni e disillusioni.
Nel 2014 il Commissario si vede costretto a fermare altoforno e cokerie che perdevano dai 20 ai 30 milioni al mese per limiti impiantistici e di mercato. Dopo ben due bandi di cessione erano pervenute offerte per i laminatoi (barre, rotaie e vergella), ma nessuna per l’area a caldo. Nello stesso anno si fa avanti anche l’attuale proprietario, Sanjan Jindal, che offre 8 milioni (“5 al rogito e tre in rate annuali da 1 milione cadauna”) per i 3 laminatoi (barre, rotaie e vergella) e si rende disponibile ad assumere 700 persone su 2.200.
Spinto da sindacati e amministrazioni locali, che volevano che Piombino ritornasse a “colare acciaio”, Jindal apre anche alla possibilità di installare un forno elettrico e realizzare un impianto per il preridotto. Il tutto subordinato all’ottenimenti di grandi quantitativi di gas a prezzi molto inferiori a quelli di mercato (cosa impossibile da ottenere).
Poco dopo entra in scena l’imprenditore algerino Issad Rebrab con la sua azienda Cevital. Promette di assumere tutti i lavoratori, di realizzare uno o due forni elettrici e di avviare attività nuove nel campo della logistica e dell’agroalimentare. A metà del 2015 viene indetta una nuova gara e vince Cevital con una offerta da 10,5 milioni (mentre Jindal era arrivato a proporre un valore negativo di 31 milioni) e l’impegno ad assumere tutti i 2.200 dipendenti (Jindal rimaneva invece fermo sui 700 già proposti). Dopo un primo momento di grande entusiasmo, ci si rende presto conto che Rebrab non solo non è in grado di mantenere gli impegni assunti, ma è in difficoltà a gestire decorosamente l’esistente fino ad arrivare al sostanziale fermo di tutti gli impianti per mancanza di semiprodotti da lavorare.
Ed è a questo punto che, nel luglio del 2018, rientra in gioco Jindal con la sua società JSW. Rileva l’azienda dall’algerino per un corrispettivo di 72 milioni e assume tutti i dipendenti scesi nel frattempo a 1.900 mettendoli in gran parte in Cassa integrazione. Il suo piano prevedeva la ripartenza dei laminatoi dopo manutenzione ordinaria e straordinaria, la realizzazione di due forni elettrici per produrre 3 milioni di tonnellate all’anno di coils e la realizzazione di un forno elettrico da 800 mila tonnellate all’anno per alimentare i laminatoi esistenti (barre, rotaie e vergella). Magnifico!, hanno esultato tutti, a partire dal ministero dello Sviluppo economico.
Ma anche questa volta alle promesse non seguono i fatti. Lo stabilimento viene abbandonato a se stesso e si risparmia su tutto, dai ricambi alle manutenzioni, tanto che basta un vento più forte del solito per fare crollare una grande gru utilizzata per la movimentazione interna delle rotaie (fine febbraio 2022).
Nel 2020 Jindal nomina un Vice Presidente Operativo Marco Carrai che presenta un nuovo piano molto meno ambizioso di quelli precedenti: prevede i soliti investimenti di manutenzione già promessi e mai realizzati, e la costruzione di un forno elettrico da 700 mila tonnellate per un investimento stimato in 75 milioni di euro. Il piano ipotizzava, inoltre, interventi di reindustrializzazione, non di pertinenza diretta Jindal: energie rinnovabili, cantieristica, logistica e trattamento rifiuti.
Passano soli quattro mesi e direttamente dall’India arriva un nuovo piano che smentisce quello appena presentato da Carrai. Si ipotizzano più investimenti sui laminatoi (85 milioni invece di 62) e la realizzazione di un forno elettrico da 1,2 milioni di tonnellate per una spesa di 195 milioni di euro. Jindal richiede una totale copertura pubblica degli investimenti da realizzarsi attraverso vari aiuti governativi e regionali e con l’ingresso di Invitalia nel capitale della società. Questa richiesta avveniva mentre in India Jindal stava facendo utili a palate (ultimo trimestre del 2021 utile di quasi 1 miliardo di dollari a fronte di 4,5 di fatturato).
Invitalia, spinta dal Governo, avvia una due diligence i cui esiti, mai resi pubblici, arrivano a fine gennaio 2022. Secondo quanto filtra da articoli di stampa, l’esito della due diligence è molto distante dalle attese di Jindal, secondo il quale qualcuno gli deve riconoscere quanto ha speso per l’acquisto nel 2018 (72 milioni) più il rimborso di quanto perso in quasi quattro anni (si parla di circa 80 milioni).
Morale? È da gennaio che non se ne sa più niente e si è ritornati in una situazione di stallo.
Come in tutte le storie vale la pena a un certo punto di fermarsi, riflettere su quanto accaduto e trarne indicazioni utili per un futuro finalmente migliore. Quanto fin qui raccontato dimostra che quando non si ha il coraggio di affrontare la cruda realtà – e si preferisce affidare le aziende in difficoltà a chi promette sogni – si perde tempo e si peggiora la situazione.
Oggi, a parere di chi scrive, sono maturate le condizioni per soluzioni realizzabili. Dopo il Covid, e in presenza della guerra in Ucraina, sta emergendo infatti con sempre maggiore consapevolezza la necessità del Paese (e dell’Europa) di poter contare su una siderurgia sana, efficiente, e riorientata alle reali necessità del mercato.
Quand’anche Taranto ritornasse ai livelli produttivi previsti dal piano (quale dei tanti piani?, ma questa è un’altra storia), il mercato ci dice che per quanto riguarda i coils esistono necessità che possono rappresentare una grande opportunità per Piombino. L’intuizione l’aveva già avuta nel 2018 lo stesso Jindal, ma evidentemente non ci ha creduto fino in fondo ed è anche per questo che ha consumato tutta la credibilità che poteva avere in partenza.
Sui giornali si ipotizza l’interesse di altri soggetti privati italiani. Benissimo! Ma questi soggetti non vanno lasciati soli e in balia di estenuanti trattative con gli indiani che hanno poco o nulla da perdere se non quanto hanno già perso. Un suggerimento interessante arriva dal Sindaco di Piombino che recentemente ha dichiarato: “L’azione per uscire dall’impasse è la revoca delle concessioni”. Effettivamente gran parte delle aree occupate dallo stabilimento sono in concessione demaniale, peraltro alcune scadute e altre in scadenza, e perciò di proprietà dello Stato.
Ci troviamo in definitiva di fronte a un bivio: o l’imprenditore indiano presenta finalmente un Piano di sviluppo coerente e lo garantisce lui (non pantalone!) oppure si revochino le concessioni perché non c’è più il rischio di fare un salto nel vuoto. Ci sono aziende serie e italiane la cui storia dimostra che hanno sempre creduto nella siderurgia, che hanno investito anche nei momenti difficili e, soprattutto, che hanno sempre mantenuto gli impegni assunti.
Un’ultima istruzione per l’uso: questa volta si verifichi innanzitutto la serietà, qualità e realizzabilità dei progetti rispetto alle reali esigenze del mercato. La questione sociale, importantissima, va affrontata dopo sapendo che se non ci sarà posto per tutti i 1.800 dipendenti attuali e si dovranno trovale altre soluzioni altrettanto dignitose.
P.S.: Chi volesse conoscere nel dettaglio la storia di Piombino, suggeriamo la lettura delle relazioni semestrali del Commissario della Lucchini in Amministrazione Straordinaria e della stampa locale sempre molto documentata.
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