Il rialzo dei mercati in questo fine settimana non deve illuderci, l’economia globale si trova alle prese con numerosi problemi emersi negli ultimi mesi che stanno complicando la ripresa che, una volta distribuito il vaccino, sembrava alle porte: la variante delta, l’inflazione persistente, la domanda qua e là zoppicante o in caduta (si pensi alle auto), l’offerta bombardata da problemi di ogni tipo e, soprattutto, visibilmente meno elastica rispetto ai prezzi (basta pensare all’energia e al mercato del lavoro).
In questa cornice barcollano giganti al di sopra di ogni sospetto. Tagliano la produzione i Big dell’auto, compresa Toyota. Ikea confessa che i suoi magazzini si stanno svuotando e ci vorrà un anno per tornare ai livelli di sempre. Apple, infine. Per colpa della penuria di chips, la Mela ridurrà del 10% la produzione di iPhone 13. Insomma, è tangibile il rischio che vada in tilt l’intera catena logistica mondiale. All’improvviso le Borse scoprono così quant’è importante il fronte del porto. Non tanto quello dei camalli di Trieste quanto il blocco degli scali più preziosi per l’economia mondo: da Tianjin, nei pressi di Shenzhen, a Los Angeles passando per Rotterdam, accomunati dal problema della logistica.
Il mondo sta vivendo squilibri inediti che hanno compromesso la catena dell’organizzazione del lavoro: da una parte il Covid-19 ha imposto negli ultimi mesi la chiusura degli impianti di produzione in Asia, dalla Malesia al Vietnam, in pratica fermi da quattro mesi; dall’altra l’Europa e l’America, superato il picco dell’epidemia, avrebbero le carte in regola per riprendere a consumare. Ma non lo fanno, anche perché mancano sugli scaffali o negli showroom dell’auto i beni da acquistare perché mancano le componenti indispensabili per una vasta serie di prodotti, dall’auto alla farmaceutica, ma pure per l’abbigliamento e per l’alimentare.
Tra le conseguenze c’è un forte aumento del traffico sui mari di container, che ha provocato intasamenti e colli di bottiglia a ogni latitudine. È un po’ come se a Ferragosto sulle autostrade si riversassero tutti i Tir del mondo. Si spiega così l’intervento della Casa Bianca su Walmart, Ups e FedEx perché prolunghino l’orario di lavoro a sette giorni su sette, notturno compreso con l’obiettivo di far arrivare le merci sugli scaffali in tempo per il Natale. Una decisione che segue di tre settimane la scelta dei porti di Long Beach e di Los Angeles di lavorare 24 ore al giorno per l’intera settimana nel tentativo di smaltire l’interminabile coda in rada, nell’attesa di sbarcare le merci. Una mossa che stenta a produrre i suoi effetti. Secondo Kuhne & Nagel, colosso mondiale della logistica, da Rotterdam a Los Angeles, ci sono almeno 659 navi in attesa di sbarcare le merci imbarcate per lo più nei porti d’Oriente, a loro volta in estrema difficoltà da mesi.
Le difficoltà che si profilano, causa green pass, negli scali italiani, sono insomma solo un episodio di una crisi globale che si manifesta anche dove i portuali, allettati da paghe più robuste, non lesinano gli sforzi. Insomma, la logistica è il sassolino (o meglio, il macigno) che ha rallentato la ripresa che, solo pochi mesi fa, sembrava ormai sul punto di decollare, in Cina come in Occidente. Al contrario, l’economia di Pechino fa i conti da mesi con una serie di disfunzioni che hanno messo in crisi la fabbrica del mondo: ai nodi delle infrastrutture si deve aggiungere la frenata della produzione di energia elettrica aggravata dalla scarsità di carbone, a causa di inondazioni e altri flagelli che hanno imposto la fermata di 60 miniere. Secondo Goldman Sachs il calo della produzione elettrica sta costando quasi mezzo punto di Pil alla Cina, anche perché si combina con lo stop agli acquisti di carbone dall’Australia, visto il braccio di ferro tra i due Paesi. E non è possibile compensare il gap con le forniture dalla Mongolia o dall’Indonesia, vista la situazione del traffico marittimo. E poi, visto il prezzo toccato dal carbone, chi se la sente di produrre a costi drogati dall’aumento delle materie prime che domani potrebbero rivelarsi un boomerang?
In sintesi siamo di fronte a una crisi diversa da quelle che l’hanno preceduta. Stavolta non basterà azionare la leva dei tassi. Scrive Alessandro Fugnoli: “Se la crisi del 2008 era stata una crisi della finanza e delle sue condutture bloccate (con la banca A che non si fidava a prestare un centesimo alla banca B e viceversa), il mondo dei nostri giorni paga le disfunzioni dell’economia reale, in particolare con le merci bloccate sulle navi o nei porti, nell’energia a rischio di razionamento e nelle persone che restano a casa inoccupate mentre le imprese cercavano in tutti i modi qualcuno da assumere”.
Sono questi i problemi con cui avremo a che fare nei prossimi mesi. Il rischio, per i pessimisti, è che torni a far capolino la “stagflazione” ovvero la combinazione tra prezzi che salgono e crescita che ristagna che segnò la crisi degli anni Settanta. Per ora è una preoccupazione eccessiva visto che, in qualche maniera, le economie (Italia in testa) registrano ancora un segno più. Per i più ottimisti, passata la buriana, il mondo tornerà a crescere per effetto della domanda arretrata di investimenti produttivi pubblici e privati, per la ricostituzione delle scorte nonché per l’impatto degli sforzi per passare dai motori a combustione all’auto elettrica, dalle fonti d’energia più inquinanti alle rinnovabili. Per ora, però, siamo appena entrati nel tunnel del cambiamento. E le sorprese non mancheranno.
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