Il bonus è già esaurito? No, non parliamo del superbonus al 110% per rendere più “verdi” i condomini, ma di Supermario, perché Draghi di per sé sarebbe un bonus per l’Italia, l’uomo chiamato a guarire le ferite del Paese, per citare, come ha fatto The Economist, Nicolò Machiavelli. La partita più importante riguarda le riforme, i quattro pilastri sui quali tutto si regge messi in evidenza dal presidente del Consiglio nell’introduzione al Piano nazionale per la ripresa e la resilienza: giustizia, Pubblica amministrazione, fisco e concorrenza.



Qui sono sorte le prime difficoltà con l’Unione europea (in particolare sul fisco e sulla concorrenza) e ne sorgeranno altre anche con le forze politiche della coalizione, che hanno cominciato a fare le bizze. Prima Matteo Salvini con il coprifuoco alle 23 anziché alle 22. Poi il Movimento 5 Stelle che pretende coperture garantite fino al 2023 per un provvedimento forse utile, ma dispendioso. Il Pd, per non farsi scavalcare, scende in campo spinto da Nicola Zingaretti secondo il quale quella misura sarebbe addirittura “rivoluzionaria”. Maria Stella Gelmini, capo delegazione di Forza Italia, alza il telefono e chiama il ministro dell’Economia Daniele Franco il quale assicura che le risorse verranno trovate nella prossima manovra perché nel Pnrr (Piano nazionale per la ripresa e la resilienza) ci sono sono 18 miliardi che bastano solo fino al prossimo anno. Il Consiglio dei ministri chiamato ad analizzare le 300 e rotte pagine (ammesso che i ministri le abbiano lette tutte) è slittato dalla mattina alla tarda serata, secondo le peggiori e più collaudate tradizioni. 



Il cammino del Governo, insomma, è disseminato di trappole e sono tutte politiche. Draghi è un’illusione, come titola l’Economist, l’autorevole settimanale britannico (il cui principale azionista è John Elkann, a sua volta proprietario in Italia della Repubblica e della Stampa)? Troppo presto per tranciare, certo la luna di miele è agli sgoccioli. La coalizione si è formata per stato di necessità e soprattutto per gestire 221,5 miliardi di euro, un polmone finanziario che non ha paragoni nemmeno con il piano Marshall. Alla prima occasione, così, è arrivata la corsa a distinguersi, a piantare le bandierine sulla propria collina. Draghi aveva messo in guardia da questa frenesia identitaria, esprimendo però la convinzione che alla fine sarebbe prevalso il bene comune. Può darsi che abbia ragione, certo il presidente del Consiglio farà tutto il necessario (whatever it takes) affinché ciò accada.



Il coprifuoco e il superbonus sono piccole cose, il primo è un’inezia rispetto alla decisione di colorare di giallo quasi tutta l’Italia, il secondo una briciola rispetto alla mega torta del Pnrr. Nell’un caso e nell’altro scoprono due debolezze. Matteo Salvini sente sul collo il soffio rovente di Giorgia Meloni: unico partito di opposizione, Fratelli d’Italia può fare il pieno di tutti gli scontenti. I pentastellati sono alle prese con la liquefazione del movimento e la rischiosa rifondazione affidata a Giuseppe Conte, mentre il fondatore Beppe Grillo sprofonda nel ridicolo forse ancor più che nella vergogna. I pretesti scelti per distinguersi, ancorché inconsistenti, sono dunque la spia di questo tramestio interno alle due forze politiche che dalle elezioni del 2018 hanno dominato la scena. La loro fibrillazione non si placherà con il passare dei mesi anche in vista di quell’appuntamento chiave che sarà nella primavera prossima l’elezione del presidente della Repubblica. 

Draghi può contare sulla Lega e sul M5S? Lo vedremo, certo non garantiscono stabilità. Potrebbe essere il Pd la “forza tranquilla” che assicura la navigazione nella tempesta, questa almeno sembra l’intenzione di Enrico Letta. Tuttavia l’uscita di Zingaretti sul superbonus dimostra che il nuovo segretario deve temere le incursioni del vecchio e della sua corrente che non voleva Draghi e fa la sponda a Conte. Dunque, nemmeno un Pd in cerca di un’autonoma strategia e di un’identità da tempo perduta può assicurare la solidità necessaria per gestire la ripresa e convincere i partner europei che l’Italia non sprecherà i quattrini messi a disposizione o comunque garantiti da tutti i contribuenti dell’Unione. 

La corsa a piantare bandierine rischia di compromettere anche la gestione del piano. Tutto farà capo in ultima istanza a palazzo Chigi, il coordinatore sarà Daniele Franco al ministero dell’Economia, un ruolo decisivo spetterà ai ministri per la transizione digitale e quella ecologica (Vittorio Colao e Roberto Cingolani). Ma è chiaro che gli altri non vogliono stare alla finestra, a cominciare dai più importanti come Giancarlo Giorgetti ministro dello Sviluppo e capo delegazione della Lega, al quale fanno capo molti dossier strategici a cominciare dalla banda larga. 

Ai vertici dell’Ue e nelle cancellerie europee sono in attesa dell’elenco di interventi lunghissimo, dettagliato, pedante, ma soprattutto guardano alle riforme che Draghi intende presentare entro l’anno in modo da dare sostegno al Pnrr che verrà inviato la prossima settimana a Bruxelles. Sul fisco c’è scetticismo a proposito della lotta all’evasione. Sulla concorrenza il tema caldo riguarda il salvataggio dell’Alitalia, ma ci sono stati contrasti anche su altri dossier importanti (si pensi all’accordo italo-francese sui cantieri navali). 

Sulla possibilità di cambiare la giustizia a passo di lumaca c’è un diffuso scetticismo. Ma ci sarà battaglia anche in campo interno. Il M5S cavalcherà il partito dei magistrati, la Lega vorrà difendere non solo le pensioni anticipate, ma la flat tax (che Draghi ha categoricamente escluso) e i suoi ceti di riferimento, a cominciare dai lavoratori autonomi contro i lavoratori dipendenti ai quali guarda in particolare il Pd. Bisogna salvare le piccole imprese o spingerle a crescere sostenendo i pochi e strategici campioni nazionali? Si tratta di interessi concreti che stanno alla base di idee, culture, visioni diverse dell’Italia e del suo futuro.

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