AstraZeneca presenta i nuovi dati al Data Safety Monitoring Board statunitense e punta all’approvazione, da parte della Fda, dell’uso d’emergenza del vaccino negli Stati Uniti. I risultati arrivano dopo che il Niaid (National Institute of Allergy and Infectious Disease) aveva tacciato l’azienda di aver incluso informazioni obsolete nei risultati della sperimentazione clinica negli Stati Uniti. I nuovi dati mostrano come il vaccino anglo-svedese sia efficace al 76% nella prevenzione della malattia sintomatica e addirittura al 100% nel prevenire la malattia grave e l’ospedalizzazione.
Lo studio ha inoltre mostrato un’efficacia dell’85% del vaccino contro la malattia sintomatica nei partecipanti di età pari o superiore ai 65 anni. Intanto l’americana Pfizer è già passata alla sperimentazione di un farmaco antivirale specifico contro il Covid, che potrebbe essere efficace sin dal primo insorgere dell’infezione. Il farmaco si baserebbe su un inibitore della proteasi, utile a impedire la replicazione del virus nelle cellule. Due passi paralleli ma complementari verso l’uscita dal tunnel della pandemia? Lo abbiamo chiesto ad Antonio Clavenna, dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano.
Professore, come commenta i dati presentati da AstraZeneca sulla sperimentazione clinica del vaccino negli Stati Uniti?
Quello che era già emerso nello studio condotto in Uk, e che è stato confermato anche sul campo con la vaccinazione, viene in buona sostanza confermato: il vaccino ha un’efficacia molto elevata nell’evitare le forme più gravi, i ricoveri ospedalieri e le morti da Covid-19, l’indicatore più importante per la vaccinazione. È importante l’efficacia nel prevenire la malattia sintomatica, il famoso 76%, ma ancora più importante è che AstraZeneca, come gli altri vaccini d’altronde, abbia un’efficacia molto elevata nell’evitare le forme più gravi.
Un’efficacia del 100%, stando ai dati.
Il 100% è da prendere con le molle, perché nel momento in cui non si osservano casi gravi nel gruppo vaccinato viene data un’efficacia del 100%, ma in generale negli studi clinici, anche se si hanno grandi numeri, i numeri riguardanti gli eventi più gravi sono sempre piccoli, per cui basta un solo caso per passare dal 100 al 90%. Il messaggio però è che l’efficacia è molto elevata.
Come mai il vaccino anglo-svedese non è ancora stato approvato negli Stati Uniti?
Perché la Fda ha chiesto di condurre ulteriori studi negli Stati Uniti e in altri Paesi del Centro e Sud America, studi che si stanno appunto concludendo ora.
La cautela è dovuta agli effetti collaterali emersi in quest’ultimo periodo?
Direi che è dovuta principalmente a due fattori. Il primo è che normalmente la Fda quando valuta l’approvazione di un trattamento – che sia un farmaco o un vaccino – tende a chiedere che ci sia almeno uno studio condotto negli Stati Uniti, per una questione anche di valutazione dell’efficacia su una popolazione con caratteristiche di un certo tipo dal punto di vista genetico, etnico, etc..
E il secondo?
Lo studio che è stato sottoposto per l’approvazione in Europa aveva una serie di lacune, per esempio la popolazione sopra i 65 anni era scarsamente rappresentata. Una precauzione quindi metodologica, di avere uno studio più solido anche dal punto di vista della rappresentatività per fasce d’età.
Intanto Pfizer avvia la sperimentazione di un farmaco anti-Covid. Potrebbe essere un’ulteriore svolta, dopo quella dei vaccini?
È difficile dirlo, siamo ancora nelle prime fasi di sperimentazione. La fase che si sta avviando sta a metà tra la valutazione della sicurezza del farmaco nei volontari e una prima valutazione di efficacia, ma su numeri ancora piccoli, per cui la sperimentazione dovrà continuare allargando il campione dei pazienti.
Di che tipo di farmaco si tratta e quando andrebbe usato?
Si tratta di un farmaco che dovrebbe impedire al virus di replicarsi bloccando questo enzima che si chiama proteasi. È un meccanismo simile a quello utilizzato in alcuni dei farmaci contro l’Hiv. Sono farmaci che bloccano l’enzima che serve per tagliare le proteine che vengono formate dalle cellule dell’organismo. Se viene bloccato questo enzima teoricamente non c’è il taglio delle proteine, per cui non avviene il “montaggio” delle particelle virali e in qualche modo viene bloccata la replicazione del virus.
Questo farmaco colmerebbe una lacuna importante, cioè l’assenza di un antivirale specifico contro il Covid?
Esatto, se si mostrasse efficace andrebbe a colmare questa lacuna. Per ora abbiamo alcuni farmaci, come i cortisonici, che servono per curare i sintomi più gravi, per bloccare l’infiammazione eccessiva, mentre non abbiamo farmaci sufficientemente efficaci per bloccare la replicazione del virus. Se i dati fossero confortanti sarebbe un passo avanti per la terapia dell’infezione.
Quali saranno i tempi?
Da un lato c’è un vantaggio – purtroppo, perché è un vantaggio per modo di dire: in una situazione di epidemia la possibilità di avere un numero elevato di partecipanti in un periodo relativamente breve è molto alta. Questo consente di accorciare i tempi rispetto alle normali sperimentazioni sui farmaci. Ad ogni modo la sperimentazione richiede del tempo. Azzardando una stima, potrei dire che difficilmente prima dell’estate sarà possibile avere dati sufficienti per valutare l’efficacia. Detto questo, anche i tempi stimati per i vaccini erano lunghissimi e invece non è stato così: magari accadrà lo stesso coi farmaci.
Con i vaccini e i nuovi farmaci riusciremo finalmente a fare ingresso in una (nuova) forma di normalità?
In prospettiva, credo che le vaccinazioni consentiranno di avvicinarci maggiormente a quella che è una normalità. Difficile prevedere i tempi, ma se si riuscisse entro l’estate a vaccinare almeno le persone più anziane e più fragili, sarebbe più facile iniziare a riaprire le attività e consentire una maggiore socialità. Sono più cauto rispetto ai farmaci, siamo ancora all’inizio. Purtroppo in questo anno abbiamo visto tanti trattamenti che sembravano promettenti e che così promettenti non sono stati. Mi auguro che le sperimentazioni diano risultati positivi, ma per il momento è meglio attendere che ci siano i risultati almeno di queste prime fasi per avere un quadro della situazione più attendibile.
Cosa pensa della proposta dell’immunologa di Antonella Viola di consentire ai vaccinati il ritorno ad alcune delle normali attività?
Sarei un cauto, in questo momento, sull’ipotesi di consentire a chi è vaccinato di poter svolgere una serie di attività: aspetterei qualche dato in più rispetto al fatto che chi è vaccinato ha anche una minore probabilità di trasmettere ad altri il virus e quindi di agire da portatore sano. Ci sono dei dati confortanti su questo aspetto, però non sono ancora così numerosi da poter dire con una ragionevole certezza che questo rischio non c’è. In prospettiva è possibile che da qui a qualche settimana avremo dei dati che ci consentiranno di dire che chi è vaccinato ha la possibilità di andare al cinema o a teatro con dei rischi calcolabili molto bassi.
(Emanuela Giacca)
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