“Io non voglio diventare come Filippo Turetta, non voglio fare le cose che ha inflitto a Giulia Cecchettin. Aiutatemi prima che sia troppo tardi”. È l’allarmato SOS di un giovane di Pordenone che si è rivolto all’associazione Istrice impegnata in programmi di recupero destinati a uomini colpevoli di maltrattamenti e violenza contro le donne. Non si sa molto di questo ragazzo, che non è approdato al centro anti-violenza a seguito di procedure per codice rosso, quindi inviato dalle forze di polizia o dal tribunale, come capita nella maggior parte dei casi. La sua è un’iniziativa personale: si è presentato allo sportello di ascolto senza alcun precedente significativo, ma per una spontanea richiesta d’aiuto, mosso dal tarlo di un pensiero angoscioso scatenato dal terribile fatto di cronaca anche mediaticamente travolgente.
La tragedia di Giulia Cecchettin e del suo omicida Filippo Turetta, fuoriuscita da un contesto apparentemente normale – una relazione carica di contrasti e tensioni come tante – è sfociata in un epilogo orrendo che ha in effetti generato uno sgomento difficile da alleviare. Così è probabilmente nata nel giovane, attanagliato dalla strana immedesimazione, l’esigenza di guardarsi dentro, di scavare nelle proprie esperienze e di riconoscere che in fondo il rancore, i sentimenti di rivalsa e gelosia, tutti quegli impulsi interiori che potrebbero scatenare aggressività, non gli erano del tutto estranei.
Forti reazioni di rabbia le aveva provate anche lui in passato nei confronti della compagna – proprio questa motivazione pare l’abbia spinto a rivolgersi all’Associazione Istrice – e in tal senso sentiva urgente il bisogno di capire meglio i suoi sentimenti di ribellione, la reattività fuori controllo che facilmente avrebbe potuto accendersi e degenerare persino in gesti di violenza estrema, irreparabile.
Colpisce il fatto che, a quanto pare, una dinamica così elementare, come la possibilità di riflettere sul proprio vissuto e specialmente sulle relazioni affettive, affiori improvvisamente solo nell’impatto con una notizia clamorosa e particolarmente segnata da aspetti aberranti.
In realtà proprio i legami più significativi, quelli nei quali pare sia persino inevitabile l’espressione di bene, di dedizione, di ricerca del vero volto dell’altro, sembrerebbero acuire naturalmente la consapevolezza dei propri limiti, errori, atteggiamenti distorti, che si avvertono dolorosamente in contrasto con il desiderio di intesa e di armonia sotteso in ogni esperienza d’amore. Eppure questo impegno con la vita, alla ricerca continua di ciò che vale, che risana, riappacifica, unisce, accompagna, oggi risulta infragilito ed emarginato in una società di individui sempre più isolati, persino fra loro estranei. È forse questo il versante meno vistoso di una violenza che terrorizza, impietrisce, che pur non spargendo sangue, deprime la vita, la prosciuga, incrementando un immenso deserto di insensatezza e di aridità.
Di certo non sfugge la dimensione di solitudine che avvolge la decisione del ragazzo di Pordenone: per confidare una paura che incombe come un macigno, cioè il timore di non saper amare, di essere sopraffatto dai propri egoismi e dalle proprie pretese fino a temere di non riuscire a dominare i propri istinti di violenza distruttiva dell’altro, non ha cercato un amico, un parente, un educatore incontrato fra i banchi di scuola, un viso che incrocia abitualmente per le strade del quartiere. Gli unici in grado di intercettare il disagio che serpeggia, pare siano i professionisti, medici, psicologi, terapeuti… E c’è da ringraziarli per il loro lavoro, la disponibilità ad accogliere una richiesta di soccorso “prima che sia troppo tardi”, a schiudere forse un improbabile spiraglio di luce in tortuosi e bui labirinti esistenziali.
Per il resto, i ponti per andare oltre il proprio isolamento sembrano per lo più interrotti, le parole, soprattutto quelle decisive, suonano insensate, aleggiano come nuvole impalpabili, inafferrabili: “Alterità è una parola in via di estinzione, una parola persa: quando la usiamo, essenzialmente indichiamo un temporaneo e fastidioso limite alla nostra inconfessata convinzione che il mondo cominci e finisca con noi stessi”, ha scritto il sociologo Pier Paolo Bellini, lasciando trasparire che l’alienazione nasce dal misconoscimento dell’altro nella sua interezza, nel suo valore incommensurabile, eccedente ogni tentativo di possesso e strumentalizzazione. “È una frustrazione enorme la presenza dell’altro: da una parte ne abbiamo bisogno, dall’altra tentiamo in tutti i modi di selezionarne i pezzi che ci aggradano. L’altro, insomma, va preso a piccole dosi. Anche perché può far male. Questa è la condizione”.
E considerare questa condizione, portarne alla luce la dolorosa contraddizione, diventa una sfida che il giovane ha osato lanciare esprimendo un’esigenza vitale, chiedendo un’ancora di salvataggio per non affogare nella paura. Il coraggio della sua domanda pare già incrinare le sbarre della solitudine, inaugurare un nuovo viaggio alla ricerca dell’altro da scoprire e riconoscere.
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