Che cos’è l’orrore? Per alcuni è violenza esplosiva, viscere e fiumi di sangue; per altri è un declino sottile e opprimente, una serie di circostanze tragiche che si concludono con una perdita irreparabile. A volte è tetro e angosciante dall’inizio alla fine, a volte lascia spazio a sprazzi di umorismo o speranza; radicato nella realtà o fantasioso che sia, l’horror è stato spesso considerato un genere insulso, un divertissement per adolescenti disturbati e affascinati dalla violenza. Noi sappiamo tuttavia che l’horror è un genere dotato di mille sfaccettature, declinazioni e livelli di lettura, e ai giorni nostri viene portato avanti, nella sua forma più elevata, da un novero di brillanti registi quali Ari Aster. Dopo averci regalato Get Out, strutturalmente perfetto, e Us, meno quadrato ma comunque intrigante, Jordan Peele torna sul grande schermo con Nope, un titolo che riprende stilemi dell’horror – e non solo – per esplorare temi e dinamiche mai visti.
OJ (Daniel Kaluuya) è un giovane di poche parole che, in seguito alla morte del padre (Keith David), colpito da misteriosi detriti precipitati dal cielo, si ritrova a condurre il ranch di famiglia e a gestire i cavalli per produzioni cinematografiche. Gli affari scarseggiano e a OJ viene consigliato dalla sorella Em (Keke Palmer) di vendere il ranch al loro vicino Jupe (Steven Jeun), ma quando un misterioso oggetto volante passa sopra il ranch, allertando gli animali, i due fratelli decidono di tentare di catturarlo in video per ottenere fama e ricchezza. Già questa sinossi ha un che di spielbergiano: il paragone più ovvio è quello con Incontri ravvicinati del terzo tipo, ma Nope risulta anche vicino a Lo Squalo, per struttura e per il modo in cui gestisce la tensione.
La “presenza” indagata dai due protagonisti è evanescente: viene fatta intuire, più che essere mostrata contribuendo a creare un clima di lenta tensione, almeno inizialmente. Quando la presenza si manifesta, lo fa assistita da un comparto tecnico visivo e sonoro eccezionale; un plauso va in particolare all’utilizzo del suono, impiegato sia per annunciare l’arrivo dell’oggetto volante, sia per incutere terrore nello spettatore, lasciando all’immaginazione situazioni che se mostrate per immagini sarebbero risultate raccapriccianti in maniera eccessiva. Il film non mette in scena particolari spargimenti di sangue, con l’eccezione forse di una scena; a turbare è piuttosto la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di ignoto e smisurato, un enigma che agisce secondo principi incomprensibili alla mente umana. Userei il termine “lovecraftiano”, che in genere viene riservato a situazioni in cui il sovrannaturale non viene mai del tutto esposto in maniera netta; Nope invece non ha paura di mettere in scena l’inspiegabile, grazie anche a Hoyte van Hoytema, direttore della fotografia che ha lavorato spesso in tandem con Christopher Nolan. Le riprese del cielo, che sia di notte e immerso nella nebbia, in pieno giorno o al tramonto, nella cosiddetta “golden hour”, danno vita a una smisurata che la presenza solca e che i protagonisti ammirano (o forse no…)
Per quanto lo spettacolo abbondi in Nope, la componente umana rimane sempre centrale, nonostante la caratterizzazione dei suoi protagonisti possa far pensare a qualcuno il contrario: OJ è stoico e monolitico ai limiti del realismo, mentre Em è esuberante, caricata a pallettoni, risultando altrettanto esagerata in maniera inversa. Sono d’accordo che i loro modi inusuali possano rendere difficile empatizzare con loro, ma nel caso di OJ sospetto che si sia trattato della conseguenza di una scelta ben consapevole, cioè di mettere in scena un protagonista sullo spettro dell’autismo: il personaggio di Daniel Kaluuya è molto concentrato sul proprio ruolo di nuovo responsabile del ranch, sembra trovarsi a più agio coi cavalli che con gli sconosciuti, e fa fatica a mantenere il contatto visivo. Il suo modo di pensare è diverso da quello dei comprimari, e proprio questa sua capacità di non dare per scontato la prospettiva comune agli altri gli permetterà di affrontare gli eventi della pellicola. I suoi comportamenti hanno a volte un che di innaturale, ed è difficile mettersi nei suoi panni, ma proprio in questo sta la forza di Nope, cioè nel comunicare i suoi temi tramite situazioni e personaggi, senza i tanto criticati spiegoni di Us.
Eviterò di fare anticipazioni, ma è proprio il punto di vista l’elemento centrale della vicenda, inteso come le differenze radicali che intercorrono tra diversi modi di concepire la realtà. La nostra prospettiva “standard” è radicalmente diversa da quella che può avere un animale, un bambino, un alieno, o anche qualcuno che ha un’esperienza diversa dalla nostra, e spesso per semplificarci la vita tendiamo ad appiattire ogni differenza. Peele punta il dito, ma non contro l’uomo comune, per cui è un meccanismo naturale, bensì contro l’industria hollywoodiana, dove i diritti di animali, attori minorenni e maestranze sono regolarmente calpestati per produrre una massa in continua espansione di contenuto, che noi spettatori consumiamo ignari di cosa sia successo dietro le quinte.
Nope parla dello sguardo, il meccanismo alla base del cinema, che viene citato ripetutamente con innumerevoli riferimenti meta: basti pensare che i protagonisti sono i discendenti del fantino a cavallo ritratto nella prima sequenza di fotogrammi consecutivi mai realizzata. L’amore per il mezzo cinematografico, e soprattutto per le maestranze, eroi mai lodati e invisibili al pubblico di massa, riecheggia in numerose scelte: dalla composizione del team di protagonisti, i due fratelli addestratori e l’elettricista Angel (Brandon Perea) che fa loro da spalla, a certe scelte di design, come una che non posso rivelare, ma che ricorda la conformazione delle primissime fotocamere. Questo elogio del cinema si accompagna anche a un elogio del non-sguardo, della scelta consapevole, del preferire l’osservare al guardare; forse il singolo spettatore non può fermare le dinamiche di sfruttamento che sono ormai prassi nell’industria, ma di certo può farsi carico di fare una scelta informata e manifestare così la propria opinione.
Ci sarebbero mille altri aspetti da menzionare, come gli elementi da film western della pellicola, o la splendida colonna sonora, o il fatto che sia il primo horror mai girato in IMAX. Ciò su cui mi vorrei soffermare, invece, è sulla capacità di Nope di intrattenere ogni tipo di pubblico: dai temi che ho elencato sopra può sembrare un film difficile da digerire; lo è, nel senso che lo spettatore curioso continuerà a pensarci su a lungo, uscito dalla sala. Tuttavia, anche a un livello puramente superficiale risulta un’ottima pellicola, horror certo, ma anche con tinte action, avventurose e qualche piccolo momento comico. Ottima scrittura, comparto tecnico impeccabile e una serie di spunti intriganti; se Get Out era un film perfettamente quadrato e Us un film squadrato, Nope risulta invece un film che si espande in più direzioni, non senza macchie ma capace di far parlare di sé e di stimolare la discussione, una qualità ormai rara nelle grandi produzioni di oggi.
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