“San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l’aria tranquilla / arde e cade, perché sì gran pianto / nel concavo cielo sfavilla…” così Giovanni Pascoli nella sua poesia X agosto. Se non si trattasse di una “caduta” promettente, quella delle stelle la notte di San Lorenzo, nessuno guarderebbe ostinato il cielo nella speranza di intercettarne almeno una. Una caduta, però, non può essere promettente, almeno così sembra. A cadere si rischia sempre, meglio evitare, si potrebbe rimanere segnati per sempre.
Eppure ci sono delle cadute divenute àncore di salvezza per tutti, come quelle che hanno visto le ginocchia del Figlio di Dio picchiare sulla strada che porta al Calvario. La tradizione del popolo cristiano ne contempla tre. Estremi appuntamenti con il punto più basso di ogni uomo, il punto più drammatico o meschino a cui ciascuno può arrivare, deve arrivare, per potersi dire veramente “uomo”. Sono quelle circostanze in cui ci si accorge di essere fatti per essere rialzati e non per essere risparmiati dalle cadute. Da quel cadere salvifico verso il Calvario è nato un nuovo modo di guardare al proprio cadere, talvolta così rovinoso. Non c’è più caduta che non abbia la possibilità di una mano tesa, di uno sguardo appassionato, di un abbraccio certo.
San Lorenzo, martirizzato durante la persecuzione contro i cristiani nel 258 d.C., ha ripercorso la stessa strada del Maestro. Anche per lui il Cielo ha pianto, come per la morte in croce del Figlio, lacrime di misericordia, perché nulla di quel sangue andasse perduto. C’è bisogno che non vada perduto nulla nemmeno delle nostre lacrime, di quelle che siamo costretti a versare da ciò che accade e da quelle che versiamo per le nostre fragilità. Così guardiamo il cielo che piange il 10 agosto. Piange stelle. Piange di desiderio. “Desiderio”, nella sua etimologia più interessante, significa proprio “sentire la mancanza delle stelle”. “Il desiderio è come la scintilla con cui si accende il motore. Tutte le mosse umane nascono da questo fenomeno, da questo dinamismo costitutivo dell’uomo. Il desiderio accende il motore dell’uomo” (don Luigi Giussani).
Tutti sappiamo, per esperienza, che non è un desiderio qualunque, quello che muove il cuore dell’uomo, ma di totalità. “Come spiegare questo mio, tuo, desiderio di totalità, o ‘d’infinità’, come diceva Pavese? L’unica ipotesi ragionevole è l’Infinito. Questa apertura alla totalità è il segno più palese che l’uomo è rapporto diretto col Mistero che lo fa. Io mi trovo addosso questo desiderio, ma chi me lo dà? Un altro che mi fa così. È questa apertura alla totalità che mi fa essere libero, capace di scegliere tra diverse cose, di non essere ridotto a parte dell’ingranaggio delle circostanze, o del potere” (don Julián Carrón).
E se il cielo piangesse perché desidera noi? Se piangesse di gioia perché ci siamo e perché gli manchiamo? Se fremesse perché ci vede seduti e accoccolati per paura di non sbagliare, di non dare tutto e di non essere presi tutti interi?
E poi: che cielo è un cielo che piange stelle? Può essere solo un cielo che si è spalancato, che è diventato familiare, che ha preso un volto, un nome, una storia. Un cielo ferito che ha fatto il nostro cuore ugualmente ferito, di una ferita che non si rimarginerà se non in cielo, appunto. Così la vita diventa un’avventura sorprendente. Cadute comprese.
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