Oggi è la notte di San Lorenzo 2024. La generazione dei boomers a cui appartengo è cresciuta a pane e a sceneggiati televisivi. Non credo di cadere nella trappola della nostalgia se scrivo che quella degli anni Sessanta-Settanta fu la stagione d’oro della televisione italiana. Nel 1971 la Rai trasmise E le stelle stanno a guardare, tratto dal romanzo di Cronin. Il titolo, particolarmente azzeccato, è diventato un’espressione ricorrente per indicare l’indifferenza del mondo, della natura o di Dio alle sofferenze degli uomini. Mi è capitato spesso di citarla commentando X agosto di Pascoli, con quel “cielo lontano” che assiste impassibile alla tragedia del padre assassinato: quel Cielo, scritto poi con la maiuscola, può solo rispondere con un “pianto di stelle” al Male che segna la vita delle persone, a cui non offre risposta, ma solo patetica commiserazione.



Di fronte a una sofferenza così grande e incomprensibile, persino Dio appare impotente; l’uomo, alzate le braccia al cielo, le lascia stancamente cadere.

Ma allora perché, in questa notte di san Lorenzo e nei prossimi giorni, leviamo gli occhi al cielo con l’antica speranza di scorgere un segno di positività, un indizio buono o almeno, come dice Ungaretti, un’illusione che ci faccia coraggio?



Quelle mani alzate sono il segno minimo, residuale eppure tenace, di una domanda inestirpabile che ci costituisce, senza la quale verrebbe meno il fondamento della nostra identità. Viene meno la possibilità di cogliere la risposta quando l’uomo stesso lascia cadere, in qualunque modo, “la spinta al mistero, cui le domande costitutive del suo cuore lo sospingono autorevolmente”, scrive don Luigi Giussani.

In fondo, non dobbiamo fare altro che questo: guardare. Dio non ci chiede di più. Anche Lui ha bisogno di noi, della nostra povertà consapevole, di quel “quasi nulla” di cui parlava Leopardi. Dio ha bisogno degli uomini, diceva un vecchio film.



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