Dante Spinotti è uno dei maggiori direttori della fotografia italiani, il cui lavoro con Michael Mann – da Manhunter a Nemico pubblico passando per il fondamentale Heat – ha definito le coordinate estetiche di quello che oggi chiamiamo neo-noir. Quei film però il figlio Riccardo non deve averli capiti molto bene se il suo esordio alla regia, assieme all’altrettanto esordiente Valentina De Amicis, è un film come Now Is Everything (prodotto e fotografato proprio dal padre).



Il film parte dalla scomparsa di Matilda e dalla telefonata che raggiunge il fidanzato Nicolas, una voce femminile che sembra conoscere il mistero della scomparsa. Da qui, la memoria del protagonista e la sua ricerca si fondono e confondono e l’apparizione di una femme fatale porta Nicolas a fare i conti con il mistero della sua vita.



I due registi assieme a Matt Handy scrivono una sceneggiatura che è la decomposizione in chiave arty del neo-noir, in cui la confusione narrativa cercata e ottenuta (d’altronde, non era confuso anche Il grande sonno di Chandler?) cerca di riscattarsi attraverso la continua stratificazione del montaggio a opera di Vero Vackova più i due registi, come a certificare che nel montaggio sta la vera scrittura dell’opera.

Ma cosa vogliono scrivere con il montaggio, con i piani narrativi e temporali sempre più evanescenti, con i tipi di ripresa in continuo girotondo tra video, digitale e immagini sgranate, con le voci e le musiche fuori campo? Probabilmente vogliono scrivere la loro lettera d’amore al cinema che amano e che li ha formati, il loro modo di reinterpretare gli stili di molti autori (tutti pedantemente ringraziati con i titoli di coda): in pratica Now Is Everything è il film di due studenti di cinema, non di due registi, che orecchiano le maniere di Lynch, Malick e via citando con un sacco di voglia, ma pochissima sincerità.



A cui si aggiunge la presunzione tipica dello studente che impara a memoria la lezione senza averla capita, come i cascami di teorie della visione vecchie di 20 anni o tutto l’armamentario psicoanalitico o peggio, Anthony Hopkins in un farneticante cameo, con immagini costruite per stupire – senza riuscirci – e mai per comunicare.

Uno dei film più velleitari prodotti di recente (e infatti è praticamente un compito in classe con i familiari a supporto) in cui il fascino resta tutto sulla carta, o meglio nei nomi di chi è coinvolto, che non sa cosa dire, a chi dirlo, come dirlo. E in ogni caso lo fa male, molto male.

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