Il periodico allarme sulla scarsità delle donne italiane in posizioni di responsabilità è un appuntamento ormai tristemente ricorrente nell’agenda giornalistica del nostro paese. Gli ultimi dati, resi noti all’inizio di ottobre da Manageritalia – solo il 12% dei manager nel settore privato (la media Ue è del 33%) è donna, così come il 3,2% delle presenze nei Consigli di amministrazione delle società quotate (contro l’11,4% dell’Europa a 27) e il 23% degli imprenditori (contro una media europea superiore al 33%) – riecheggiano numeri già diffusi negli anni scorsi.



Nel 2009, sempre Manageritalia, insieme a Federmanager, rilevava con sconforto come le donne manager italiane fossero appena 13 mila su un totale di 125mila dirigenti, e fossero pagate il 7% in meno dei colleghi uomini. Nel 2008 era McKinsey, in occasione di un convegno organizzato dal Sole24Ore, a deprecare la situazione italiana, che vedeva solo un dirigente su dieci di sesso femminile, e il penultimo posto occupato dall’Italia per presenza di donne nei CdA. E non molto differente, ancora, era la situazione dipinta da Federmanager nel 2007.



Ma l’esiguità del numero delle donne dirigenti nelle aziende italiane non è che la punta di un iceberg ben più grosso, difficile da scalfire con strumenti come quelli (uno tra tutti, le quote rosa) invocati per correggere il tiro nei board direttivi o nei consigli di amministrazione. Il problema di fondo è più vasto, e si chiama lavoro.

Lo grida a gran voce il posto occupato dal nostro paese nella classifica mondiale del Gender gap, stilata dal World Economic Forum, che ci vede al 74° posto (peggio del Malawi). Lo confermano gli ultimi dati Istat, diffusi qualche giorno fa: il tasso di occupazione femminile nel 2010 è pari al 46,1%, in calo dello 0,3% rispetto all’anno precedente, a conferma di un trend discendente già in atto nel 2009. In breve, la percentuale di donne che non hanno un impiego è superiore alla metà del totale; le inattive – vale a dire le donne in età lavorativa, ma che non hanno un’occupazione e non la cercano – superano di 500mila unità le occupate (9,7 milioni contro 9,2).



Il rigetto del mondo lavorativo, e in particolare aziendale, per le donne è frutto di una diffidenza antica, ispirata dal “doppio ruolo”: dalla possibilità che una lavoratrice, diventando madre, indulga a una prolungata assenza, e rivendichi in seguito il desiderio di vivere pienamente la propria vita familiare. In effetti, quando si guarda nel dettaglio la dinamica dell’uscita delle donne dal mercato del lavoro, emerge chiaramente come la maternità continui a rappresentare un punto altamente critico: secondo i dati Cnel presentati a luglio, a 18-21 mesi dalla nascita di un figlio esiste una probabilità del 50% circa che la madre non lavori più, probabilità tanto maggiore quanto minore sono la sua età e il livello di istruzione.

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Ma mentre in Italia la curva dell’occupazione materna cala nei primi anni di vita e rimane poi inesorabilmente bassa, segno di un abbandono definitivo dell’attività, in altri paesi risale poi immediatamente dopo. Sono gli stessi paesi in cui si è fatto i conti a 360° con la dimensione vitale dei lavoratori, senza trascurare le motivazioni alla base dell’abbandono lavorativo: tra le quali campeggiano in primo piano, anche in Italia, il desiderio di dedicarsi personalmente ai figli e l’esigenza di una gestione più flessibile del proprio tempo.

 

Sarebbe dunque affrettato concludere che per portare più donne al vertice delle aziende, così come per arginare il fenomeno dell’uscita femminile dal mercato del lavoro, sia sufficiente aumentare i posti per i lattanti negli asili nido, o prolungarne gli orari e ampliarne l’apertura. La moltiplicazione dei nidi, da sola, non rappresenta una panacea né per aumentare il numero di donne “al comando”, né per consolidare la componente femminile nel mercato del lavoro: nel primo caso, bisognerebbe sostenere una relazione diretta tra affidamento del bambino al nido e opportunità di carriera, che con tutta evidenza non si dà; nel secondo caso, bisognerebbe spiegare come andare avanti oltre i tre anni di vita, limite massimo di età per l’accoglienza nei nidi, oltre che mettere a tacere il legittimo desiderio genitoriale e infantile di vicinanza, specialmente nella fase della prima infanzia.

 

La conciliazione tra famiglia e lavoro è un problema strutturale, e come tale va affrontato. Non bastano misure isolate e unidirezionali: occorre un intervento di sistema, che metta in questione la cultura stessa delle aziende, i loro modelli organizzativi, i loro sistemi di valori e le priorità che esse stesse si assegnano. È la tesi presentata nel corso del seminario della Fondazione Vigorelli, tenutosi in Bocconi lo scorso 28 settembre e dedicato al concetto di Corporate Family Responsibility.

 

Il modello di azienda “familiarmente responsabile” (elaborato dalla IESE Business School dell’università di Navarra, e portato in Italia dal consorzio ELIS) è un modello sistemico, che coinvolge tanto le policies quanto gli elementi di facilitazione, la cultura e i risultati. L’obiettivo è quello di favorire la flessibilità lavorativa, secondo un paradigma nuovo di azienda: basato non più sulla separazione tra famiglia, lavoro e comunità, ma sulla loro interconnessione; non più sull’ascesa gerarchica verticale, ma sul frequente mutamento di impiego, anche con pause intermedie, e sulla continuità delle opportunità di realizzazione lungo la vita lavorativa; non più sulla valutazione puramente funzionale delle competenze, ma su una considerazione “multidimensionale”; non più su un modello di impiego presenzialista, a tempo pieno, ma sulla delocalizzazione e sull’adozione di orari elastici.

 

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Tra gli elementi che distinguono l’azienda del XX secolo da quella del XXI, secondo il paradigma elaborato da Booz&Company nel 2009 e presentato da Roberto Sorrenti del Consorzio ELIS, c’è anche il maggiore equilibrio di genere, contrapposto alla tradizionale prevalenza maschile. Ma questo equilibrio non è il frutto di accorgimenti una tantum (come l’apertura di nidi aziendali, o l’introduzione di “quote rosa” nei CdA); bensì di un vero e proprio slittamento tra due modelli: che porta a considerare la realizzazione familiare e la ricchezza relazionale e sociale del lavoratore non più marchi d’inaffidabilità (come accade oggi per le lavoratrici madri), ma parte integrante del suo bagaglio.

 

E del resto, i casi europei di maggiore successo per il coinvolgimento lavorativo femminile sono anche quelli in cui più ampio e variegato è lo spettro delle soluzioni per la conciliazione messe in campo (non a caso, la percentuale di “aziende familiarmente responsabili” in Europa sfiora il 39%, contro il 21% del nostro paese). Nessuna sorpresa, dunque, se il posto delle donne italiane nel mercato del lavoro, dalla base fino al vertice, stenterà ad affermarsi: almeno fino a quando l’aspirazione alla pienezza affettiva verrà considerata potenzialmente lesiva della produttività, fino a quando la cura della famiglia verrà giudicata un ostacolo verso la rincorsa della cosiddetta “carriera”, fino a quando la resa lavorativa verrà correlata a un presenzialismo e a un efficientismo asettici che dovrebbero ormai essere retaggi di un’altra epoca.