La faccia di Paola la conoscono in pochi. Di certo pochissimi tra quelli che, dallo scorso venerdì, le hanno manifestato la loro solidarietà attraverso la Rete, facendo rimbalzare la sua storia in tutto il Paese. Quella di Paola è una delle due facce della flessibilità: giornalista scientifica “in prestito all’economia”, come si definisce, sette anni di collaborazione con il Corriere della Sera, un contratto da Co.Co.Co. annuale e la speranza di un’assunzione, prima o poi, anche solo a tempo determinato.
All’improvviso un collega se ne va per fondare un sito tutto suo, lasciando vacante un posto da redattore; un posto subito destinato a qualcun altro, a dispetto delle speranze altrui. Paola non lo accetta, se ne lamenta su un social network, ne scrive sul suo blog, decide di iniziare una protesta clamorosa: uno sciopero della fame e della sete, per dire che non si può, che quel posto le spettava, che nessuno dovrebbe lavorare per tanti anni senza la realistica prospettiva di una maggiore stabilità.
Usa un termine impegnativo, Paola, parla di “precariato”: lo stesso termine che risuona in una ricerca presentata di recente alla Sapienza di Roma, realizzata dalla cattedra di Sociologia dell’Organizzazione, e incentrata in particolare sull’esperienza femminile dell’instabilità lavorativa. Una condizione che proprio nelle donne genererebbe maggiore insicurezza e difficoltà professionali.
Secondo la ricercatrice Patrizia Chiappini, che ha coordinato le interviste su un campione casuale di lavoratrici provenienti dal territorio della capitale, i fattori che maggiormente determinano disagio nelle intervistate sono l’incertezza sul futuro, l’assenza di tutele riguardanti la malattia, la maternità e gli infortuni, oltre alla generale insicurezza vitale che si ripercuote anche sul nucleo familiare (91% delle risposte). Il progetto di una famiglia (92%, contro il 5% che desidera l’indipendenza dalla famiglia d’origine) è quello che più manca a queste donne; che nelle interviste dichiarano (91%) di percepirsi come “precarie”, e non “flessibili” – attribuendo un valore positivo al secondo termine, in opposizione al primo.
Precario uguale negativo: il termine scelto da Paola attira non solo l’attenzione degli internauti sensibili al tema, ma anche dei colleghi giornalisti, dei sindacati, del consiglio di redazione di via Solferino, dello stesso direttore De Bortoli. Tante in Rete le voci a suo favore – di solidarietà, di ammirazione, di incoraggiamento; tante altre quelle perplesse, fredde o apertamente in dissenso. Non soltanto da chi è lontano dall’esperienza e dalle problematiche dell’instabilità lavorativa, ma, insospettabilmente, da chi la condivide.
Giovani, spesso divisi tra redazioni, uffici stampa, webzine e qualsiasi altra cosa sappia di scrittura, che non sanno o non hanno mai saputo cosa sia il “posto fisso”, eppure non lo rimpiangono, aborrono le carriere “per anzianità”, di precarietà parlano malvolentieri, non è così che definirebbero la loro condizione. E tra questi spuntano anche donne, proprio come quelle intervistate a Roma, eppure ben lontane dal deplorare il proprio destino.
Donne che forse non avrebbero disdegnato ferie e malattie pagate, ma per le quali flessibilità non vuol dire solo rinunciare a questo; una vanta su un social network i suoi 5 lavori in contemporanea per mantenere la famiglia, un’altra su un blog inneggia alle maniche rimboccate senza lamentarsi, altre semplicemente si godono il fatto di poter mettere insieme vita e lavoro meglio di tante dipendenti. Quale che sia la faccia della flessibilità lavorativa, di certo è la faccia di una donna.