Tutele per la maternità, defiscalizzazione del lavoro femminile, flessibilità, valorizzazione del lavoro di cura. Sono alcune delle “15 proposte concrete per migliorare la vita delle donne (e degli uomini)”, discusse il 17 gennaio nell’ambito del convegno organizzato dalla rivista “Elle”, che per la prima volta ha raccolto presso la Bocconi di Milano le rappresentanti di università, associazioni, istituzioni, con le rispettive mozioni, sotto la sigla “Sorelle d’Italia”.
Un’iniziativa lodevole, soprattutto alla luce degli ultimi dati relativi alla partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Secondo gli ultimi dati Eurostat, difatti, la disoccupazione femminile nel nostro paese è ancora cresciuta, passando dal 9,7% del novembre 2009 al 10% del novembre 2010. Per quanto l’aumento non sia paragonabile a quello della disoccupazione giovanile (che in Italia è arrivata al 28,9%), quanto al tasso complessivo di inattività donne e giovani sono sulla stessa barca: per dirla con le parole dell’Istat, se tra i giovani uno su cinque non solo non ha lavoro, ma non lo sta cercando, per le donne la percentuale sale a una su due.
E fa riflettere ulteriormente il fatto che si tratti di un dato superiore alla media europea: dal 2000 al 2009, il tasso di disoccupazione femminile è passato dal 39,9% al 35,7% nell’Europa a 27, mentre nel nostro paese siamo scesi solo dal 53,7% al 48,9%. E nel nuovo anno non andrà meglio, in particolare per le madri lavoratrici, se è vero quanto emerge dalla ricerca di Regus (multinazionale leader nelle soluzioni per gli spazi di lavoro), riportata nei giorni scorsi da Avvenire: nel 2011 le aziende italiane intenzionate ad assumere sono il 36%, ma solo il 28% dichiara di assumere più mamme; decisamente meno che nel 2010, quando a voler assumere le mamme era stato ben il 44% delle aziende.
Quali sono i rimedi possibili? Le ricette proposte dalle “Sorelle d’Italia” spaziano dalle norme di flessibilità positiva, che incrementino la diffusione di part-time, flessibilità oraria, telelavoro, alla fiscalità di vantaggio per le imprese che assumono le donne, fino al riconoscimento di un premio alle aziende che promuovono il talento femminile. A queste si affiancano le proposte scaturite dall’innalzamento dell’età pensionabile femminile, come la valorizzazione del lavoro di cura, con l’introduzione di contributi figurativi per i figli, e l’utilizzo degli eventuali fondi derivanti da tale innalzamento per il potenziamento di misure di welfare a sostegno delle donne e delle famiglie.
Due proposte fondate nello scambio del tempo (il posticipo della pensione) con il denaro (contributi e sussidi): ma, sempre parlando di pensioni femminili, si sarebbe potuto riflettere anche sull’opportunità di scambiare il tempo con il tempo, offrendo alle donne che la preferiscano la possibilità di scambiare gli anni di lavoro in più con anni di pausa durante la vita lavorativa, da dedicare alla famiglia o alla formazione.
Tra le quindici proposte rientrano anche auspici più “tradizionali”, come l’aumento del numero di asili nido, l’estensione del tempo pieno e dell’apertura delle scuole nei periodi di vacanza, che periodicamente ricompaiono nel dibattito pubblico. Proposte che, partendo dalle esigenze di conciliazione tra famiglia e lavoro, finiscono tuttavia per sconfinare in un territorio più delicato: quello dell’educazione e dell’allevamento dei figli, dando l’impressione di considerarlo come un mezzo, piuttosto che come un fine.
La precisazione di voler tenere in conto l’interesse dei bambini (magari documentando tale volontà con ricerche tanto approfondite, quanto mancanti di confronto con evidenze diverse) non riesce a dissolvere il sospetto che si tratti di misure pensate in primo luogo per i loro genitori, e che i due interessi non coincidano affatto. È vero che l’obiettivo dichiarato dell’iniziativa è quello di “migliorare la vita delle donne e degli uomini”, ma tenere presente anche la vita dei bambini non sarebbe male.