In apertura del convegno su “Crescita economica, equità, uguaglianza: il ruolo delle donne”, il Direttore generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, ha ribadito il sostanziale svantaggio del nostro Paese nel percorso verso la parità tra uomini e donne, fornendo una serie di dati a conferma dell’immagine già non brillante restituita dall’Italia negli anni precedenti. Parte dei dati erano tratti dal World Development Report appena pubblicato dalla Banca Mondiale e dedicato quest’anno a Gender equality and development: un rapporto che fornisce tuttavia qualche spunto di riflessione ulteriore rispetto a quelli presentati nel convegno. Sfogliando il rapporto completo della Banca Mondiale, si realizza quanta strada ancora resti da percorrere al mondo per raggiungere non un’astratta parità tra i sessi, ma la conquista per le donne del rispetto dei più elementari diritti di cui godono anzitutto come esseri umani – prima ancora che come lavoratrici, consumatrici o decision-makers.
Si tratta di temi come la mortalità femminile e l’accesso all’istruzione: non è forse un caso che una larga parte del testo sia dedicata a risultanze qualitative, quantitative e testimonianze poco rassicuranti, provenienti da quella parte del mondo largamente sottorappresentata negli indicatori economici, eppure così largamente predominante sia in termini di popolazione coinvolta che a livello territoriale. Consultando le tabelle del rapporto, si “scopre” così che il tasso di mortalità delle neonate in Cina è aumentato di circa 200mila unità tra il 1990 e il 2008, o che questioni come la mortalità materna, l’accesso all’acqua pulita, la punibilità della violenza sulle donne sono lungi dall’essere superate, come per fortuna è accaduto in Italia.
Rispetto a questa difficile realtà, è alto il rischio di distrarsi concentrando lo sguardo altrove. Magari su qualche indicatore numerico, magari isolato dal contesto, magari ipostatizzato come portatore di valori assoluti. Prendendo, ad esempio, la tabella di comparazione del numero di ore giornaliere dedicate dalle persone dei due sessi al lavoro, alla cura della casa e alla cura dei bambini in diversi paesi, si scopre che in Cambogia (oltre che nella solita Svezia) gli uomini si occupano di lavori domestici il doppio che in Italia. Tanto basterebbe per dar fiato alle trombe di chi contesta “l’Italia fatta in casa”. Ora, se si utilizzasse allo stesso modo un altro indicatore altrettanto critico, come quello tra retribuzione maschile e femminile, il paragone restituirebbe il discutibile quadro di una Germania meno “emancipata” del Benin, del Malawi o dell’Egitto. In entrambi i casi, vale la pena di chiedersi se questo basti a fare dei paesi apparentemente più “virtuosi” un esempio da seguire: o se la realtà sia più sfaccettata e complessa della sua apparenza numerica.
E a proposito di numeri. Rispetto al poco onorevole settantaquattresimo posto italiano tra le nazioni del mondo nelle classifiche globali per il divario di genere, consola poco il fatto che, tra le economie avanzate, ci sia chi sta peggio di noi: il Giappone, nella fattispecie. Ma il fatto dovrebbe almeno far riflettere sul peso della componente che, nel coinvolgimento femminile nel mercato del lavoro, riveste l’organizzazione del lavoro stesso: tanto più questa si irrigidisce, si sclerotizza, si allontana dalle esigenze della vita, come per ragioni diverse è accaduto in Giappone, tanto più è difficile che le donne scelgano di prendervi parte. Allo stesso modo, il fatto che le nazioni europee si collochino invece decisamente meglio dovrebbe dirla lunga sulla strada fatta per distanziarsi da un modello di organizzazione che, inspiegabilmente, dalle nostre parti viene invece ancora decantato.
Dietro i numeri si nascondono spesso realtà che vanno interpretate più sottilmente di quanto sia stato fatto: il caso del Pil, indicatore ormai proverbiale per le contestazioni a suo carico, è emblematico. L’omissione di aspetti come questi è del tutto comprensibile, nel tentativo di restituire un quadro sintetico del rapporto, e della posizione del nostro Paese al suo interno. Tuttavia, l’insistenza su fattori puramente numerici e astratti, senza la “discesa” nella complessità delle situazioni che quei numeri adombrano, rischia di incoraggiare chi tenta accostamenti del tutto indebiti: come quello tra la condizione delle donne in Italia e quella di paesi dalle realtà evidentemente molto diverse.
Accostamenti che, oltre a offendere le donne che corrono in quei paesi ben altri rischi che quelli di non essere sufficientemente riconosciute come motori dell’economia, rischia di rendere un servizio non egregio alle stesse italiane, distogliendole dalla concretezza della vita per aizzarle contro un’astrazione.