Una domanda dovrebbe diventare il cuore della nostra riflessione: quale passaggio di testimone tra generazioni? Quale pensiero o valore positivo è in grado di legare oggi le generazioni? Una domanda anzitutto politica, nel senso alto del termine. Che questa crisi dovrebbe imporre all’attenzione di tutti. Alcuni dati, anzitutto: negli ultimi 25 anni i giovani italiani dai 15 ai 24 anni si sono quasi dimezzati: dagli oltre 9 milioni a 5 milioni e 800 mila. La disoccupazione giovanile è al 30%, contro a una media del 10% circa di quella adulta. E sta crescendo la generazione dei “né-né” (o Neet), cioè di coloro che non studiano, né lavorano. Non solo. L’età media dei membri dei vari consigli di amministrazione è in Italia di 15 anni superiore rispetto a quella europea. Solo 8 deputati nel nostro Parlamento hanno meno di 40 anni. Solo lo 0,2% degli insegnanti ha meno di 30 anni. L’età media dei ricercatori supera i 40 anni. Le contraddizioni si preferisce scaricarle, in sintesi, su chi non ha ancora alzato la bandiera della protesta: dal grande debito pubblico al disconoscimento del merito come criterio di selezione nel mondo della cultura, della scuola, dell’università, delle imprese, degli apparati burocratici, per i tanti assistenzialismi che perdurano.
Non è difficile, in poche parole, immaginare un dovere che dovremmo tutti riconoscere come la prima priorità del nostro Paese, al di là della lotta politica e delle diverse ipotesi partitiche. Dovremmo anzitutto, in sintesi, aggiornare il software politico-sociale-culturale del nostro Paese. Forse ci vorrebbe un altro ‘68, meno ideologico ma più positivo. Capace di guardare in controluce le contraddizioni, oltre l’attuale piccolo cabotaggio. Il conflitto generazionale che, come fiume carsico, sta minando la coesione sociale-istituzionale del nostro Paese sta sempre lì, pronto a esplodere…Una sorta di nuova Tangentopoli, questa volta generazionale e socio-economico-politica.
Uno dei corollari del nostro immobilismo valoriale anzitutto e poi politico-programmatico lo ritroviamo proprio nel fenomeno, sempre più diffuso, dei Neet. Proviamo ora a sintetizzare l’ultimo documento della Banca d’Italia (“Economie regionali”) che ne parla, prima nei suoi riscontri generali, poi nelle sue analisi sulla situazione giovanile. Un modo per capire a fondo lo stretto legame tra crisi generale e crisi dell’occupazione giovanile, prima di tutto “crisi di speranza”. In questo documento viene mostrato, nella prima parte, come nel Nord del nostro Paese la ripresa economica, dopo una leggera inversione di tendenza dell’anno precedente, si sia interrotta nell’estate del 2011. In particolare, nelle regioni centrali e meridionali è stata confermata una situazione di stagnazione, per tutti i primi nove mesi dell’anno. È stato l’effetto, lo sappiamo tutti, non solo quindi dal solo punto di vista imprenditoriale, dell’instabilità dei mercati finanziari, e non solo della nostra perenne crisi politica.
Limitandoci al primo semestre del 2011, il rapporto della Banca d’Italia rileva come le esportazioni siano cresciute più lentamente del semestre precedente, con un aumento leggermente superiore per il Sud e per il Nord del nostro Paese, mentre l’occupazione è cresciuta di poco in tutte le aree. Durante i mesi estivi, invece, i prestiti alle imprese sono diminuiti al Centro e al Nord e sono rimasti invariati al Sud. Anche i finanziamenti alle famiglie ne hanno risentito, con un lieve calo, mentre la qualità del credito alle famiglie è rimasta stabile.
La seconda parte del documento contiene, tra gli altri, uno studio sul mercato del lavoro per i più giovani che è di grande interesse, con dati e indicazioni sulle dinamiche più recenti. Proviamo a riassumerne alcuni aspetti qualificanti dal punto di vista dei nostri giovani (dai 15 ai 34 anni). Come dato nazionale, si rileva che nel biennio 2009-2010 il numero di occupati più giovani è calato ancora del 6,8% nel 2009 e del 5,6% nel 2010, mentre per gli over 35 anni ha continuato a crescere, seppur lentamente. Ma il dato più preoccupante, come si è detto, è questo: il numero di giovani che non sono né occupati, né impiegati in corsi di studio o formazione, cioè i Neet, nel 2010 ha raggiunto i 2,2 milioni di persone. Ciò significa che quasi un ragazzo su quattro (il 23,4%), tra i 15 e i 29 anni, non lavora e non studia. Nel Mezzogiorno la percentuale di Neet già prima della crisi era oltre il 30%, ora arriva al 54,5%, ma questo fenomeno comincia a preoccupare anche le zone più sviluppate del nostro Paese. I Neet sono per il 26% donne, con la terza media, meridionali, sposate o conviventi, contro il 20% degli uomini. Questi giovani, per un 20%, hanno almeno un genitore, oltre il 30% nel solo Sud. Più del 25% di questi giovani si trova in una famiglia nella quale nessuno lavora. Un dato davvero preoccupante e in crescita dal 2008 del 3%. I Neet sono per il 20,5% laureati (al Nord questa percentuale scende al 15%, al Sud sale oltre il 30%).
Una lezione la ricaviamo da tutti questi dati: la fatica di essere giovani oggi, al di là della contingenza economico-occupazionale, sta a monte, nella crisi di fiducia, nella difficoltà di “pensieri lunghi” capaci di indicare un “futuro possibile” con positività, nei termini del sano protagonismo giovanile. Una bella sfida prima di tutto socio-culturale, quindi anche politica. Nel senso alto del termine. Ciò che manca oggi, non solo nel nostro Paese.