La scorsa settimana, all’Università dell’Insubria di Varese, è stata presentata una ricerca condotta da 30 studenti del corso di laurea in Scienze della comunicazione. È stata svolta un’indagine nella città di Varese attraverso un questionario che ha approfondito il rapporto tra cittadini e istituzioni: 327 le persone interpellate, età compresa fra i 20 e gli 80 anni, sentite quasi tutte le categorie sociali (studenti, impiegati, disoccupati, pensionati, artigiani, liberi professionisti, imprenditori, casalinghe, operai, commercianti). Dall’indagine è emerso che, nell’attuale fase di crisi economica, la politica ha perso non solo la sua credibilità, ma anche la sua capacità di intervento. I cittadini mal sopportano la pesantezza delle tasse (83%) senza ricevere in cambio servizi adeguati e propongono tagli ai costi della politica (89%) e due legislature come tetto massimo di un parlamentare (77%). L’80% degli interpellati pensa che nel breve periodo non ci sarà alcuna ripresa.



In realtà gli esperti sostengono che di crescita se ne riparlerà nel 2014, ci aspettano in buona sostanza altri due anni difficili. Malgrado il diffuso scetticismo sembra però venir fuori l’anima positiva e costruttiva dei cittadini: allorquando si chiede loro se, in seguito alle restrizioni economiche, sono disponibili a cambiare stile di vita: il 58% dichiara di averlo già fatto e l’85% sarebbe anche disponibile a ridurre e selezionare i consumi.



La condizione giovanile è ciò che preoccupa maggiormente la popolazione: 74 cittadini su 100 pensano che politica e società non siano in grado di proporre valide soluzioni per le nuove generazioni. E consiglierebbero a figli o amici di andare a lavorare all’estero (82% dei casi). Ma perché scegliere l’estero? Perché i cervelli italiani fuggono all’estero?

Premesso che i cervelli non sono solo coloro che ambiscono alla carriera scientifico-universitaria – i cervelli sono anche nelle imprese – essi fuggono all’estero per condizioni assolutamente tipiche del mercato del lavoro italiano. Ovvero, l’accesso al mercato in Italia è condizionato dal cosiddetto canale informale: l’ultima rilevazione di Unioncamere ci dice che l’85 % di chi trova lavoro lo fa attraverso il passaparola; solo il 15% passa attraverso una selezione che può essere dell’azienda stessa che assume come di un’Agenzia per il lavoro.



Non è così in molti paesi europei, dove il ruolo del soggetto orientatore e intermediatore è nettamente più autorevole e riconosciuto dalle parti, dalla domanda come dall’offerta di lavoro. Si pensi all’Inghilterra, alla Germania, alla Francia, all’Austria e alla Danimarca, della cui flessicurezza parlano molto i giornali del Bel Paese. Questo circuito poco virtuoso che anima il mercato del lavoro italiano scoraggia chi non ha una rete sociale forte: il “cervello” in questo caso potrebbe essere il figlio di un immigrato o di un onesto operaio che per tutta la vita ha fatto quello e che non ha conoscenze che potrebbero favorire il figlio.

D’altro canto, questo percorso poco specializzato penalizza le aziende stesse che in questo modo, dovendo competere in un mercato sempre più globale e complesso, non riescono a reperire le giuste e principali risorse, quelle umane. Siamo, a questo punto, ancora convinti che i cervelli fuggano all’estero perché non ci sono fondi per la ricerca?