Il XIII Rapporto AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati italiani, che ha coinvolto 400mila giovani del 2009, del 2007 e del 2005 (intervistati a fine 2010, rispettivamente dopo uno, tre e cinque anni dalla conclusione degli studi), conferma il persistere della crisi anche per i giovani formati ai più alti livelli, sebbene con un’intensità minore rispetto a quella dell’anno passato. Con un messaggio che comunque rimane valido, oggi forse più che mai: nonostante le difficoltà, studiare paga; l’università è un investimento per se stessi, per una società più istruita, per un Paese sempre più qualificato e quindi in gara con la sfida dell’innovazione e di uno sviluppo sostenibile.
Il futuro prossimo a livello planetario sarà contraddistinto dalla diffusione sempre più rapida di innovazioni, indispensabili per la crescita, ma verosimili, a condizione che si estenda e si approfondisca la società della conoscenza. Chi sarà protagonista di questo scenario? I giovani, soprattutto, ma non solo. Infatti, ricorda Gary S. Becker, premio Nobel per l’economia, “le attrezzature, gli impianti in un’impresa sono necessari, ma è altrettanto fondamentale che a utilizzare gli strumenti di lavoro ci siano persone capaci, sia fra i lavoratori, che fra gli imprenditori”, perché per un Paese “la crescita risulta impossibile in assenza di una solida base di capitale umano. Il successo dipende dalla capacità di una nazione di utilizzare la sua gente”.
Su questo terreno il nostro Paese risulta in ritardo; ce lo dicono alcuni indicatori:
Solo 10 laureati su 100 abitanti di 55-64 anni (dove sta anche classe dirigente e imprenditoriale): mediamente nei Paesi Ocse il valore è doppio;
La scolarizzazione universitaria dei più giovani (25-34 anni) è fra le più basse: 20% contro il 38% della media dei Paesi Ocse;
Ancora oggi, 75 laureati su 100 in Italia portano a casa la laurea per la prima volta;
La Commissione Europea ha indicato il 40% di popolazione 30-34enne laureata come obiettivo da raggiungere entro il 2020. L’Italia, nel 2009, è al 19%: molto al di sotto della media del 32,2% dell’Unione Europea a 27.
Dunque un Paese che dovrebbe puntare ad avere più laureati (meglio preparati si capisce), ma che deve intanto fare i conti con una popolazione giovanile che si riduce drasticamente per denatalità (i 19enni sono calati del 38% negli ultimi 25 anni). Cala anche il passaggio dalle scuole superiori all’università (era pari al 75% dieci anni fa, è diventato 66%). Per effetto di ciò, assieme alle difficoltà economiche di tante famiglie, si stanno riducendo gli iscritti (-13% in sei anni). E, contrariamente ai luoghi comuni, hanno cominciato a ridursi, dal 2008, anche i laureati.
Pochi giovani, dunque, pochi laureati. In un contesto oggettivamente difficile: complessivamente la disoccupazione giovanile nel nostro Paese ha raggiunto livelli prossimi al 30%. Contemporaneamente emergono aree a rischio di marginalità per i giovani non inseriti in un percorso scolastico/formativo e neppure impegnati in un’attività lavorativa. Un motivo in più per sottolineare che sarebbe un errore imperdonabile sottovalutare la questione giovanile o tardare ad affrontarla in modo deciso; non facendosi carico di quanti, anche al termine di lunghi e costosi processi formativi, affrontano crescenti difficoltà ad affacciarsi sul mercato del lavoro, a conquistare la propria autonomia, a progettare il proprio futuro.
La crisi economica è grave, nessuno intende nasconderlo; eppure, è necessario investire di più in istruzione universitaria, ricerca e sviluppo come fanno gli altri Paesi Ocse. Il finanziamento italiano, pubblico e privato, in istruzione universitaria (0,88% del Pil) è più elevato solo di quello della Repubblica Slovacca e dell’Ungheria. Nel settore strategico della Ricerca e Sviluppo, il nostro Paese, nel 2008 ha destinato l’1,23% del Pil, risultando così ultimo fra i paesi europei più avanzati. In questo settore risulta debole anche l’apporto proveniente dal mondo delle imprese (pari allo 0,65% del Pil, mentre è l’1,21% nel Regno Unito, l’1,27% in Francia, l’1,84 in Germania e il 2,78% in Svezia). Studi recenti riguardanti l’Italia mostrano che le caratteristiche delle imprese sono una determinante fondamentale della domanda di laureati; che aumenta – infatti – al crescere sia del contenuto tecnologico delle produzioni, sia del livello di istruzione degli imprenditori: le imprese con titolari in possesso della laurea occupano il triplo di laureati rispetto alle altre imprese.
Entrando nel merito dei risultati principali del Rapporto (la documentazione completa è disponibile su www.almalaurea.it), si nota un aumento della disoccupazione fra i laureati triennali del 2009: dal 15% al 16% (l’anno precedente l’incremento era stato prossimo ai 4 punti percentuali). Ma la disoccupazione cresce anche fra i laureati specialistici, quelli con un percorso di studi più lungo – dal 16% al 18% -, e fra gli specialistici a ciclo unico (come i laureati in medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza, ecc.) – dal 14% al 16,5%.
A un anno dall’acquisizione del titolo, la stabilità riguarda il 46% dei laureati occupati di primo livello e il 35% dei laureati specialistici (con una riduzione, in entrambi i casi, di 3 punti percentuali rispetto all’indagine precedente). Contemporaneamente, si dilata la consistenza del lavoro atipico. Un campanello d’allarme è dato dalla robusta crescita del lavoro nero fra il 2007 e il 2009. I laureati occupati senza contratto, a un anno, raddoppiano nel collettivo degli specialistici biennali raggiungendo il 7%; per i laureati di primo livello, i “senza contratto” passano dal 3,8% al 6%; gli specialistici a ciclo unico, che registrano da sempre un valore più elevato, passano dall’8% a quasi all’11%.
Le retribuzioni a un anno dalla laurea, già non elevate (pari ai 1.150 euro per i laureati di primo livello e di poco al di sotto di 1.100 euro per i titoli specialistici), perdono ulteriormente potere d’acquisto rispetto alle indagini precedenti (la contrazione risulta compresa fra il 4% e il 5% solo nell’ultimo anno).
Ciononostante, con il trascorrere del tempo dal conseguimento del titolo, le performance occupazionali migliorano considerevolmente. Per la prima volta, l’indagine si estende ai laureati biennali specialistici del 2007, a tre anni dal titolo: il 75% è occupato. La quota di occupati stabili cresce apprezzabilmente (di 22 punti percentuali) tra uno e tre anni dal titolo, raggiungendo il 62% degli occupati: si tratta, in prevalenza, di contratti alle dipendenze a tempo indeterminato. Le retribuzioni nominali superano, a tre anni, 1.300 euro mensili netti.
Tra i laureati pre-riforma a cinque anni, il tasso di occupazione risulta dell’81%. La stabilità dell’occupazione si estende fino a coinvolgere il 71% degli occupati pre-riforma. Nota dolente è rappresentata dalle retribuzioni che, a cinque anni dalla laurea, seppure tra i laureati pre-riforma superiori nominalmente a 1.300 euro, hanno visto il loro valore reale ridursi, negli ultimi cinque anni, in misura significativa (quasi del 10%).
Interessanti spunti di riflessione si ottengono anche dal confronto tra laurea del padre e laurea del figlio, molto più coincidenti di quanto ci si sarebbe potuto attendere. Una coincidenza che, se pare quasi tradizionale, fisiologica nelle lauree di accesso alle professioni liberali (giurisprudenza, ingegneria, farmacia, medicina), non sembrava altrettanto prevedibile per altri percorsi di studio.
Così, il 43% dei padri ingegneri ha un figlio (maschio) laureato in ingegneria, il 43% dei padri laureati in giurisprudenza ha un figlio con il medesimo titolo di studio, il 32% dei padri economisti ha un figlio con lo stesso tipo di laurea, il 31% dei padri medici ha un figlio con lo stesso tipo di laurea, il 29% dei padri laureati in lingue ha un figlio laureato in lingue, il 24% dei padri chimici o farmacisti ha un figlio che ha scelto lo stesso percorso di studio, il 23% dei padri psicologi ha un figlio laureatosi nella medesima disciplina, il 19% dei padri architetti ha un figlio architetto.
La condizione occupazionale e retributiva dei laureati resta in ogni caso migliore di quella dei diplomati di scuola secondaria superiore. Fonti ufficiali ci dicono che, fino a oggi, nell’intero arco della vita lavorativa, i laureati hanno presentato un tasso di occupazione di oltre 11 punti percentuali maggiore rispetto ai diplomati (77% contro 66%), nel medesimo arco di tempo anche la retribuzione risulta più elevata del 55%.
Il sempre più rapido processo di innovazione, la progressiva riduzione del ciclo di vita delle tecnologie, l’accresciuta instabilità dell’economia mondiale, possono trovare risposta in una più elevata e diffusa soglia educazionale: una formazione che punti prima di tutto a insegnare ad apprendere. Questo per permettere ai lavoratori maggiori capacità di adattamento alle più frequenti fasi congiunturali negative. Oltretutto, riqualificare lavoratori poco istruiti è più complesso e oneroso. Ma vi sono benefici dell’istruzione non legati al mercato del lavoro e all’inserimento lavorativo delle persone, collegati al contributo dell’istruzione alla realizzazione individuale nei diversi campi della vita.
Inoltre, sempre più diffusa è la consapevolezza che l’informazione gioca un ruolo fondamentale nel favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e di competenze. Anche sul mercato del lavoro, compratori e venditori non sempre si incontrano facilmente. Poiché il processo di ricerca richiede tempo e risorse, crea frizioni nei mercati; contemporaneamente, ci sono nuovi lavori disponibili e disoccupazione nel mercato del lavoro. Con questa motivazione, la recente assegnazione del premio Nobel a Peter A. Diamond, Dale T. Mortensen, Christopher A. Pissarides è una conferma della rilevanza di banche dati come AlmaLaurea che possono rendere meno vischioso il processo di ricerca del lavoro e di collegamento tra laureati e posti di lavoro.
Nel perseguire questi obiettivi, AlmaLaurea mette a disposizione dal 1994 la sua esperienza e il suo modello, già ampiamente collaudato (dal 1998 sono stati ceduti a imprese italiane ed estere tre milioni e mezzo di curricula) per collaborare con altre iniziative pubbliche a livello nazionale, ma anche sovranazionale. Perché ci sono pochi dubbi sull’obiettivo comune di favorire la collaborazione e la sinergia tra le forze migliori dell’università, del mondo delle imprese e della ricerca: per assicurare un futuro ai più giovani e per permettere al Paese non solo di uscire dalla crisi, ma di riposizionarsi ai livelli più elevati nel contesto internazionale.