Che la crisi economica dell’ultimo anno abbia favorito la diffusione del part-time un po’ ovunque in Europa, è dato ormai acclarato – così come il fatto che in Italia il tempo parziale sia aumentato un po’ meno che altrove, come mostravano già i dati dell’Eurostat risalenti allo scorso anno. Nel nostro Paese, la percentuale di lavoratori part-time nel terzo trimestre del 2010 sfiorava il 15% in totale: una percentuale risultante dallo squilibrio tra la percentuale maschile (5,5%) e quella femminile (28,3%), e inferiore sia a quella media dell’Europa a 27 (pari al 19%) che a quella dell’Europa a 15 (pari al 20,2%). Ma analizzando i dati medi Istat dei primi tre trimestri degli ultimi quattro anni, l’istituto Datagiovani ha fatto di recente emergere un’altra evidenza: che il pur trascurabile aumento dei lavoratori a tempo parziale nel nostro Paese dal 2007 al 2010, sia in molti casi riconducibile a una sorta di scelta obbligata.



In altre parole: dei circa 270.000 lavoratori in più che nel 2010 avevano un contratto part-time – con un aumento dell’1,4% rispetto al 2007 -, circa la metà era stata spinta dall’impossibilità di trovare un lavoro full-time. E se si leggono le statistiche per genere, la percentuale di lavoratori impossibilitati a impiegarsi a tempo pieno diventa la maggioranza tra gli uomini, superando il 60%. Esattamente l’inverso di quanto accadeva nel 2007, quando l’opzione per il tempo parziale era stata motivata dalla maggioranza degli interessati (tipicamente donne) con la deliberata scelta di occuparsi della famiglia: meno di 4 part-time su 10, annotano i ricercatori di Datagiovani, derivavano allora dall’indisponibilità di impieghi a tempo pieno.



È interessante notare l’impatto di genere di una tale situazione: spinta dalla crisi, anche la componente maschile della forza lavoro si è “piegata” al tempo parziale, come risulta eloquentemente dall’aumento di lavoratori part-time nel Mezzogiorno d’Italia. Come dire, scelta volontaria e sesso femminile del lavoratore sembrano andare di pari passo (e accompagnarsi a tempi più felici per l’economia), almeno quanto costrizione involontaria e sesso maschile (compagni invece della crisi economica).

Due riflessioni tra tutte si impongono in questo scenario. È vero che il lavoro a tempo parziale, in questa prospettiva, cessa di essere uno strumento consapevole di conciliazione tra famiglia e lavoro e rischia di tramutarsi in una condizione-capestro, proprio come tante altre forme di flessibilità lavorativa più o meno forzata all’ingresso nel mercato del lavoro. Ma proprio come per queste forme, è necessario sottolineare che in loro assenza forse i numeri di cui stiamo parlando sarebbero ancora più tetri: e che le percentuali di lavoratori annoverati tra i dipendenti a tempo parziale sono almeno percentuali sottratte alle tabelle sull’inoccupazione, la disoccupazione o addirittura il lavoro in nero.



Magra consolazione: è altrettanto vero che la situazione è in parte frutto di una rivoluzione solo parzialmente compiuta sul fronte delle politiche del lavoro. Una rivoluzione che, nel nostro Paese, ha introdotto la flessibilità come strumento facilitatore in entrata (e in uscita) dal mondo del lavoro, ma non ancora come struttura portante di questo mondo.

E così, misure come il part-time, il job sharing, il telelavoro si sono consolidati come altrettanti mezzi di riduzione del costo del lavoro, o di variabilizzazione di questo costo – associati, peculiarità tutta italiana, a mansioni meno qualificate e a stipendi ridotti, anziché il viceversa, come all’estero.

Meri mezzi, insomma: senza mai riuscire a penetrare l’organizzazione del lavoro, senza mai arrivare a percorrerla trasversalmente, senza poterla impregnare di una filosofia della flessibilità che suggerisse, a qualsiasi livello, in qualsiasi momento della carriera e qualsiasi sia il sesso e l’età del lavoratore, un più sano equilibrio tra attività professionale e vita privata – per non dire tra lavoro e famiglia.