Si conclude con questo articolo l’esposizione dei dati più significativi della ricerca presentata la scorsa settimana dall’autore su queste pagine.
La dimensione dell’impresa ha un ruolo nel differenziare alcuni aspetti, ma fino a un certo punto. C’è una soglia che, generalmente, costituisce una frattura nelle opinioni e negli orientamenti dei lavoratori: al di sotto o al di sopra dei 10 dipendenti. Al di sotto, complessivamente, le condizioni percepite, le prospettive di carriera, i rapporti con i datori di lavoro, appaiono migliori. Risultano inferiori anche lo stress e i carichi di lavoro. Maggiore è l’identificazione con l’imprenditore, al punto che qui più che altrove si aspira ad avviare in futuro una propria impresa. Diverse e individualizzate sono le relazioni con il datore di lavoro per negoziare le proprie condizioni.
Oltre questa soglia dimensionale, invece, le differenze sembrano affievolirsi, non si rilevano scostamenti significativi fra un’impresa di 30, di 100 o di 250 dipendenti. Come se la logica organizzativa del lavoro e della produzione prevalesse sulle altre dimensioni. Dunque, lavorare in una micro-impresa, segna positivamente, soprattutto per ciò che riguarda la dimensione relazionale, la percezione del proprio lavoro, le prospettive di carriera. Di diventare, un domani, imprenditore.
Fino a qui, gli elementi caratterizzanti. Tuttavia, se ci spostiamo sul piano delle culture del lavoro, sulla propensione a introdurre elementi di maggiore flessibilità sul lavoro, piuttosto che l’adesione a modalità di innovazione e compartecipazione al rischio d’impresa, la dimensione non offre più una chiave di lettura, non discrimina i comportamenti. Come se una certa cultura del lavoro fosse trasversale ai lavoratori e alle imprese. Come se fosse nel DNA della quota prevalente fra gli occupati.
La crisi economica che attanaglia il sistema produttivo non sembra avere avuto effetti radicali sulle percezioni dei lavoratori in relazione alle loro condizioni (tabella 1). Anzi, complessivamente solo nel 17,4% dei casi le aspettative sul lavoro sono peggiorate (60,6%, rimaste uguali; 21,9% migliorate). Per quello che riguarda le condizioni oggettive, l’8,2% le considera peggiorate (78,8%, rimaste uguali; 13,0% migliorate). Semmai, è la dimensione del clima interno alle imprese nelle relazioni fra colleghi e con i superiori ad averne risentito (26,9%) in misura maggiore (39,3%, rimasto uguale). Ma non così ovunque, se nel 33,8% esso è giudicato addirittura migliorato.
È centrale la questione della valorizzazione sociale del lavoro manuale e operaio. Se è comprensibile un processo di identificazione e di autorappresentazione dei lavoratori che si sposta progressivamente verso mansioni di natura impiegatizia (d’altro canto, anche all’interno delle fabbriche il lavoro – grazie alle nuove tecnologie – ha sempre meno contenuti “manuali” e sempre più “tecnici”), nello stesso tempo lo scarso valore sociale attribuito alla manualità e il continuare a considerare il lavoro operaio e della fabbrica come “sporco”, “pesante” e di basso status, ha effetti perversi, come quello di non spingere le giovani generazioni a intraprendere percorsi di formazione di natura professionale e tecnica, di cui invece il sistema produttivo ha forte necessità.
Comunicare i cambiamenti organizzativi intervenuti nelle organizzazioni del lavoro, mostrare come siano cambiate le mansioni e le figure professionali, valorizzare meglio anche sotto il profilo remunerativo talune professioni, rappresenta un terreno di sfida per il sistema produttivo.
Osservando le forme contrattuali presenti sul mercato, la ricerca mette in luce – in linea con le statistiche ufficiali – come siano mutate negli anni e abbiano visto emergere nuove tipologie di lavoratori. Ciò nonostante, tre lavoratori su quattro (75,3%) risultano disporre di un contratto a tempo indeterminato (tabella 4). Erano l’88,9% nel 1998, ma questo non ha significato una “reale” precarizzazione del mercato del lavoro. Rispetto a pochi anni fa, la quota di lavoratori con contratti a tempo determinato rimane sostanzialmente stabile (13,2%, era il 17,7% nel 2008).
Continuiamo a essere, nel panorama europeo, il Paese con un tasso di lavori flessibile inferiore alla media. Ciò nonostante, la percezione che in Italia il lavoro sia “precario” coinvolge quasi tre lavoratori su quattro (72,5%) e una quota analoga (70,3%) ritiene che esso sia diffusamente irregolare (tabella 5). Dunque, esiste uno “strabismo” fra le condizioni “reali” e le “percezioni”. Al punto tale che le percezioni sembrano sovrastare la realtà dei fatti.
L’effetto di difficoltà di messa a fuoco delle condizioni oggettive rispetto all’immaginario, può trovare origine in diverse cause. Una di queste, sicuramente, consiste nel fatto che alle riforme realizzate sul mercato del lavoro in ordine a una maggiore flessibilità, non è ancora seguito un riordino di quegli ammortizzatori sociali che avrebbero assicurato maggiori protezioni in caso di perdita del lavoro [].
Un’altra causa è ascrivibile alle condizioni di abbrivio sul mercato del lavoro che pesano in particolare sulle giovani generazioni. Come si è potuto osservare (tabella 4), solo un terzo (38,4%) dei 15-24enni dispone di un contratto a tempo indeterminato; il 34,4% ne ha uno a tempo determinato; il 15,5% è un lavoratore autonomo “improprio” e l’11,8% lavora in modo non regolare. Bisogna attendere la soglia dei 35 anni per trovare che poco più dei quattro quinti (83,5%) giunga ad avere un contratto a tempo indeterminato.
Quindi, questo lungo e oneroso percorso per una parte non marginale delle famiglie (poiché ciò significa uscire di casa più tardi, rinviare progetti di vita stabili e così via) non può non avere effetti negativi sulla costruzione dell’immagine del lavoro. Rendendolo, appunto, precario ben oltre la sua effettiva realtà.
In ogni caso, le giovani generazioni di lavoratori stanno sopportando il peso prevalente dell’incertezza insita in un mercato del lavoro non sicuro, sono meno tutelati, anche perché più distanti e meno intercettati dal sindacato. Soprattutto, vivono una contraddizione significativa. Hanno perlopiù realizzato un investimento in un percorso formativo medio-lungo (diploma e laurea), ma proprio questi sono quelli che vivono in misura maggiore l’incertezza e la flessibilità sul mercato del lavoro, rispetto a quanti (sempre meno) hanno interrotto precocemente gli studi.
(3 – fine)
[1] Rinviamo, in particolare, alle riflessioni di A. Accornero, San Precario lavora per noi, Milano, Rizzoli, 2006.