Alcuni dati sul sistema scolastico e universitario italiano non possono non allarmare: a fronte di un 94% di esiti positivi degli esami di stato, abbiamo la prassi di una parte dell’offerta universitaria che, attraverso i test d’ingresso, non si fida di questi stessi esiti, tanto che il punteggio degli esami di maturità è solo una delle componenti prese in considerazione nelle graduatorie di merito; se dieci anni fa, prima cioè dell’entrata in vigore della riforma universitaria (3+2), solo il 35% degli iscritti arrivava alla laurea, oggi la percentuale è salita del 50% circa, con punte del 60% in alcune facoltà soprattutto scientifiche; le inchieste di Alma Laurea, il Consorzio che fa capo all’Università di Bologna, ci dicono che il 50% degli studenti laureati, se tornasse indietro, cambierebbe la scelta, soprattutto liceale, fatta in terza media; resta da verificare il dato dei giovani occupati che sta seguendo un lavoro in linea diretta col percorso scolastico e universitario, percentuali che cambiano a seconda del contesto di lavoro scelto, nettamente favorevoli alle opzioni di natura scientifico-tecnologica.



Questi dati fanno riflettere, perché è chiaro che, in ordine a un percorso di ridisegno dello stesso diritto del lavoro (si passerà dallo Statuto dei lavoratori allo Statuto dei lavori), e in relazione alle percentuali più rilevanti, nel contesto europeo, di lavoro flessibile, noi siamo chiamati a fare in modo che i nostri giovani siano realmente aiutati a prevenire la precarietà, con una flessibilità vissuta non come opportunità in positivo, ma come mera rincorsa verso il vecchio “posto fisso”, cioè svincolato da un sistema di valutazione e quindi al riparo da rischi di mobilità se non di inoccupabilità.



Noi sappiamo bene, perché sono cose note, cosa significa “società della conoscenza”, “lavoratori della conoscenza”, analfabetismo di ritorno, obsolescenza delle informazioni e delle competenze a suo tempo maturate. Ma sappiamo bene, di converso, che l’attitudine prima da far maturare nei giovani d’oggi (pensiamo qui alla centralità dell’alternanza scuola-lavoro, cioè la scuola in azienda, oltre i già collaudati stages) è “l’imparare a imparare”, unita alla consapevolezza che solo col gioco di squadra, in un’unità produttiva, si possono ottenere risultati positivi. Per fare tutto questo, i nostri giovani vanno messi alla prova, costretti, se così si può dire, ad apprendere velocemente cosa voglia dire “essere vigili”, “svegli”, aperti alle novità e alle nuove opportunità, di vita prima che di lavoro.



Così si può vincere il rischio di un’offerta formativa che, tenendo in stand-by quell’attenzione vigile (nella logica naturale, perché legata all’egocentrismo adolescenziale), immacolata a un male-interpretato “carpe diem”, perda di vista l’orizzonte esistenziale del proprio “progetto di vita”, come sintesi tra legittime aspirazioni individuali e contestuali condizioni di realizzazione.

Per rendere, però, concreta questa esigenza, se da un lato va riqualificata l’intera filiera dell’offerta formativa, dall’altro si rende necessario spingere l’attenzione degli operatori scolastici, soprattutto i responsabili delle azioni di orientamento, i coordinatori di classe, i responsabili di progetti, verso l’analisi della “occupabilità” di ogni titolo di studio, superiore e universitario, in modo da consentire agli studenti e alle famiglie scelte ponderate, libere e responsabili. Mature.

Nello stesso tempo, vanno costruiti ex novo o continuamente aggiornati i dati che le associazioni di categoria e gli ordini professionali dovrebbero offrire in ordine alle effettive esigenze del mondo del lavoro, localmente ma anche nei confronti dei diversi processi di internazionalizzazione delle opportunità di vita e di lavoro.

Di fronte, dunque, a una scuola che individua percorsi concretamente misurabili in termini di competenze, aperti alle continue innovazioni e con un quadro d’assieme aggiornato alle offerte del mercato del lavoro, ogni ragazzo e ogni ragazza, con le loro famiglie e aiutati dai propri docenti orientatori, avranno la possibilità di interrogarsi sulle proprie attitudini e passioni e potranno scegliere sapendo per tempo la spendibilità del proprio percorso di studio.

Oggi questo accompagnamento concreto alla vita adulta manca nel mondo della scuola, a parte alcune belle eccezioni. Di fronte a questa chiarezza, non ci saranno timori di flessibilità o rischi di precarietà. Ma resta chiaro che non potrà più essere il semplice possesso di un titolo di studio, di un pezzo di carta, che potrà significare pretesa di un posto fisso, in qualche pubblica amministrazione.

I passaggi successivi di questo processo di ridisegno dell’offerta formativa saranno l’abolizione legale del titolo di studio e la conclusione a 18 anni del percorso delle scuole medie superiori, come già avviene in tutta Europa. Ma sarà la forza delle cose (il principio di realtà) che imporrà questi ulteriori passaggi.