Se foste un piccolo imprenditore lombardo, titolare di una piccola impresa meccanica con una trentina di dipendenti, uomini e donne; se la crisi economica avesse sorpreso anche la vostra impresa, mettendovi di fronte alla necessità di tagliare il tagliabile; se aveste preso la decisione di includere in questi tagli i posti di lavoro, e se di questi posti di lavoro diciotto fossero occupati da donne, operaie specializzate, e dodici da uomini, come scegliereste i dipendenti da mettere in cassa integrazione, e poi da licenziare?
Alla Ma.vib di Inzago, che produce motori per impianti di condizionamento, il criterio apparentemente adottato è stato il sesso: i lavoratori messi fuori, tra 10 e 13, sono tutte donne. La motivazione addotta dall’aziendina, secondo i sindacati (che sono sul piede di guerra), è stata la possibilità per le lavoratrici di curare i loro figli; ma, soprattutto, il minore contributo economico rappresentato dal loro stipendio nel bilancio familiare.
“Quello che le donne portano a casa è il secondo stipendio”: la contestata dichiarazione che i rappresentanti della Ma.vib. avrebbero fatto davanti all’Associazione delle piccole e medie imprese (Api) è confortata dai numeri. Secondo l’ultimo aggiornamento dei dati di occupazione dell’Istat, l’occupazione femminile è in crescita (0,1 punti percentuali guadagnati a maggio rispetto ad aprile, e 0,4% in più rispetto all’anno scorso), più di quella maschile (scesa di 0,4 punti rispetto al 2010); mentre la disoccupazione femminile è regredita più di quella maschile (nel primo trimestre, il tasso di disoccupazione generale è in calo rispetto all’anno scorso – 8,6% contro il 9,1% del 2010; ma per gli uomini l’indicatore decresce di 0,2 punti percentuali, per le donne di 0,9 punti). Ma questi dati vanno letti insieme a quelli sulle retribuzioni, resi noti nell’ambito del Rapporto Annuale Istat 2011: in media lo stipendio netto mensile delle lavoratrici dipendenti è di 1.131 euro, contro i 1.407 degli uomini – circa il 20% in meno.
Più rosei i numeri che emergono dalla recente ricerca condotta dalla Sda Bocconi in collaborazione con Hay Group, che mostra un divario del 12,5% tra gli stipendi maschili e femminili a parità di incarico: ma parla anche di un gender pay gap persistente, dovuto anche, e soprattutto, alla concentrazione di donne in ruoli di minore responsabilità e in funzioni aziendali a più bassa retribuzione.
Una “segregazione orizzontale” che contribuisce a rendere il modello del “male breadwinner” nostrano duro a morire: secondo l’ultimo rapporto Isfol su mercato del lavoro e politiche di genere, tra il 2009 e il 2010, in Italia si concentra, tra i vari paesi europei, il più alto numero di coppie con donne in età attiva (tra i 25 e i 54 anni) in cui lavora soltanto l’uomo (37,2% contro il 10% dei paesi nordici). Quel che è più interessante è che, anche laddove la donna lavora, il suo contributo al reddito familiare si attesta in una misura inferiore al 40%, proprio per via della collocazione femminile marginale rispetto alle posizioni più remunerative.
Avrà pensato a tutto questo il titolare della Ma.vib. mentre sceglieva a chi sottrarre l’agognata retribuzione mensile, concludendo che l’impatto sulle famiglie sarebbe stato inferiore in caso di licenziamenti femminili? Spettava a lui, e alla sua aziendina da trenta dipendenti, cambiare tutto questo con un atto quasi simbolico, ma che sarebbe piaciuto molto ai sindacati?
E soprattutto: trasformare una crisi economica in un’occasione di guerra tra i sessi in nome della rivendicazione di un mondo ideale, in cui nessuno perde ricavi, né posti di lavoro, avrà alla fine qualche effetto positivo, o si tradurrà in un mero esercizio di immaginazione al potere?