Quando, poco più di un mese fa, da queste pagine ci siamo permessi di elargire al neo ministro del Welfare, Elsa Fornero, qualche consiglio non richiesto, avevamo insinuato un sospetto sul fatto che l’ingente numero di ore trascorse dagli italiani al lavoro, documentato dalle ricerche, significasse un altrettanto ingente livello di produttività e quindi di efficienza. In particolare, il dubbio sorgeva nel confronto con i lavoratori esteri, apparentemente non così stakanovisti (secondo la ricerca Regus che citavamo, sono il 38% quelli che superano regolarmente le otto ore lavorative rispetto al 45% italiano, il 10% quelli che raggiungono le 11 ore rispetto al 17% italiano, il 43% quelli che una volta usciti portano il lavoro a casa rispetto al 51% italiano).

Il sospetto era fondato: la conferma arriva dai dati Eurostat sull’andamento della produttività oraria nei principali paesi europei negli ultimi 10 anni, commentati recentemente anche da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi su Il Corriere della Sera. Nell’elaborazione di Bankitalia riportata dal Corriere emerge chiaramente come il dato nel nostro Paese ci collochi in una posizione sia decisamente inferiore a quella tedesca e francese, sia peggiorata nel tempo rispetto a paesi che pure partivano da una posizione più debole, come la Spagna.

Confrontando i dati sorgente dell’Eurostat, che fanno 100 il dato medio dell’Europa a 27, appare chiaramente che nel 2000 l’Italia, con un valore di 116,8, era al di sopra di questa media; sebbene inferiore rispetto a quella della Germania (124,3) e della Francia (137,9), la performance italiana era sostanzialmente allineata ai 16 paesi della più ristretta area Euro (117), e ben superiore a quella spagnola (102,7).

Nel corso del decennio, poi, la produttività oraria italiana è costantemente decresciuta: non solo per effetto della crisi del 2008, com’è accaduto in tutta Europa, ma già a partire dal 2002-2003 (quando il valore si posiziona a 109,1 e poi a 107), mentre gli altri paesi crescevano (la Germania raggiunge 125,7, la Francia addirittura 140,7). Fino a quando, nel 2006, la Spagna ci ha superati, restando in vantaggio fino al 2010 (anno in cui il nostro valore raggiunge i 102,1 contro i 107,9 spagnoli, i 124 tedeschi e i 133,6 francesi). Tra i paesi europei “storici” ha fatto peggio di noi solo la Grecia (77,9 – per quanto in questo caso si tratti di un valore provvisorio).

A questo va aggiunto che il numero di ore lavorate in Italia non è significativamente decresciuto: secondo i dati del rapporto “Employment in Europe 2010” della Commissione europea, tra il 2008 e il 2009, nel momento in cui le ore lavorative settimanali erano già in calo per molti paesi del continente, da noi continuavano ad aumentare; e tra il 2009 e il 2010, in un contesto di diminuzione generalizzata, quella italiana risultava comunque più contenuta rispetto ad altri paesi, tanto da posizionarci stabilmente al di sopra della media dell’Europa a 27 (con un calo inferiore a paesi come la Gran Bretagna, la Germania, la Danimarca).

Più ore in ufficio o in fabbrica, insomma, non hanno condotto a una maggiore efficienza lavorativa. Una consapevolezza che, ha fatto notare la giornalista Anna Zavaritt, appartiene già da tempo alle lavoratrici madri, penalizzate tuttora da una filosofia che premia il presenzialismo e gli orari impossibili piuttosto che il merito e il risultato. Ma di questo tipo di organizzazione rischiano di fare le spese tutti i lavoratori, che, come hanno spiegato Alesina e Giavazzi, devono rassegnarsi a un livello salariale più basso che altrove, e se vedono i loro stipendi crescere (dopo essere partiti in posizione diversificata a seconda del sesso, aggiungiamo) è solo con l’età invece che con la produttività.

Cambiare marcia, per passare a un lavoro che premi davvero e soltanto il rendimento e che sia organizzato di conseguenza, converrebbe anche a loro.