L’Italia ha meno laureati della media europea, sono meno giovani e a rischio disoccupazione. Secondo le ultime rilevazioni di AlmaLaurea, gli studenti italiani si laureano infatti in media a 23,9 anni con la triennale, mentre per la laurea specialistica l’età sale fino a 25,1 anni. Il 10% dei laureati, inoltre, è studente lavoratore e arriva a ottenere il tanto desiderato diploma all’età media di 30,5 anni. Secondo il medesimo rapporto, prima della riforma del 3+2 l’età media alla laurea era di 28 anni.
La riforma del 3+2, introdotta nel 2000 dal Ministro Berlinguer per far convergere l’università italiana sul modello europeo di istruzione superiore (Bachelor+Master), ha diviso il percorso verso la laurea in due tappe: un primo titolo dopo tre anni e un secondo titolo, diciamo la laurea vera e propria, dopo altri due. Quest’idea, combinata con una riforma dei piani di studio divenuti flessibili – tanto flessibili da poter risultare troppe volte inconsistenti -, ha ottenuto il duplice effetto di aumentare enormemente il numero dei laureati e di abbassare l’età media di coloro che arrivano a conseguire il titolo di dottore.
Di che lauree si tratta però? Lauree che valgono poco. Circa 10 anni fa, sul mercato del lavoro, i laureati spuntavano stipendi superiori a quelli di un diplomato anche del 20%. Adesso, secondo il rapporto della Fondazione Giovanni Agnelli, “I nuovi laureati. La riforma del 3+2 alla prova del mercato del lavoro”, un laureato prende appena il 7% in più. Comincia a farsi strada l’idea che il percorso universitario non sia un buon investimento, la flessione delle immatricolazioni registrata negli ultimi anni ne è un sintomo preoccupante: dopo la prima fase di entusiasmo e di grande espansione nella prima metà del decennio precedente, quando nel 2003-2004 gli immatricolati erano il 56% dei 19enni, nel biennio 2010-2011 ci si è fermati al 47%.
Come accennato, c’è stata sì una significativa crescita del numero dei laureati (208mila nel 2010 contro i 161mila del 2000) e della loro percentuale sulla popolazione in età lavorativa (superiore oggi al 14% contro il 9% del 2000); i laureati post-riforma ottengono più in fretta il loro titolo: in media a 26 anni per i triennali, a 27 per i magistrali, con un guadagno rispettivamente di oltre due anni e oltre un anno nei confronti dei laureati del 2000; si è allargata la base sociale degli studi universitari, quanto meno al primo livello: oggi ai corsi triennali accedono giovani appartenenti a gruppi sociali in precedenza esclusi e più del 70% dei nuovi laureati portano il primo titolo in famiglia; i nuovi laureati, infine, vengono assorbiti dal mercato del lavoro e hanno tassi di disoccupazione inferiori a quelli dei diplomati (nel 2010, 4,5% vs 7% per gli uomini, 6,9% vs 9,3% per le donne).
Non si tratta comunque di un pieno successo, perché un bilancio critico della riforma del 3+2 rivela anche diverse ombre. In particolare, se i nuovi laureati trovano lavoro (anche per l’azione concomitante di forme contrattuali più flessibili), lo trovano, però, a condizioni meno favorevoli di prima: il loro vantaggio retributivo sui diplomati si è sensibilmente ridotto, almeno nei primi anni di carriera lavorativa; il sistema economico italiano non ha, inoltre, fatto registrare apprezzabili miglioramenti di produttività e di capacità innovativa in seguito all’immissione del nuovo capitale umano, né è facile comprendere – specie in anni di crisi – se ciò sia dipeso da una preparazione inadeguata dei nuovi laureati (suggerita anche da tassi di prosecuzione dalla triennale alla magistrale troppo elevati, in media del 52%, con grandi differenze fra le aree disciplinari) o dall’incapacità delle imprese di sfruttare al meglio le nuove risorse umane a loro disposizione, come rivela anche la difficoltà dei datori di lavoro di distinguere fra i diversi tipi di laurea. Certo è che, ancora una volta, emerge il limite tutto italiano dell’assenza di percorsi di alternanza scuola-lavoro e della difficoltà della transizione dalla scuola e università al mercato del lavoro, due mondi ancora oggi chiusi e separati.
Considerando le specificità del tessuto produttivo italiano, questo è infatti composto da piccole e medie imprese che non hanno la forza di investire in innovazione e conseguentemente non richiedono lavoratori con competenze elevate. Il mercato, inoltre, richiede laureati con profili differenti rispetto a quelli che maggiormente attraggono i giovani. Gli interventi di riforma hanno quindi determinato un aumento dei laureati non corrispondente però al fabbisogno del mercato. Si ha la percezione che si sia intervenuti a valle e solo per “far numeri”, risultando – di fatto – più funzionali ai docenti, il cui numero è aumentato esponenzialmente, che agli studenti. Anche il problema dell’età del neodottore rischia un intervento che non tiene conto delle ragioni per le quali esiste un alto numero di fuori corso: 610.873 su 1.799.542 iscritti, cioè il 33,9%. O, meglio, si rischia di affrontare la questione senza chiedersi perché un giovane dovrebbe investire tempo e denaro in un percorso di studi universitario al cui esito non troverà una collocazione lavorativa.
Nel Consiglio dei ministri della scorsa settimana è stato discusso anche il problema del valore legale del titolo di studio, che alcuni vorrebbero abolire come già proponeva Luigi Einaudi a metà del secolo scorso. La questione è nata a margine della decisione ancora da prendere di non far valere più la laurea specifica nei concorsi pubblici, secondo la filosofia del “preparatevi e, qualunque laurea avete, venite a gareggiare”. L’università, infatti, fornisce sempre di meno la preparazione tecnica di alto livello che si richiede a un corso superiore di studi.
Il problema però è anche un altro, vale a dire l’atteggiamento che spesso il laureato assume nei confronti del lavoro. Il lavoro è il luogo dove imparare. Coloro che si affacciano sul mercato del lavoro per la prima volta, non possiedono competenze, bensì conoscenze. La competenza è un saper fare, non è un sapere. I giovani appena usciti dal mondo dell’università non hanno competenze, hanno attitudini e conoscenze, pur nella convinzione di essere competenti. Spesso questo determina un atteggiamento rigido nella ricerca e nello stesso approccio al lavoro, mentre il lavoro oggi richiede flessibilità.
Flessibilità non solo e non soltanto di tipo contrattuale, ma soprattutto flessibilità come disponibilità ad aggiornare e adattare il proprio sapere e saper fare alle richieste del mercato; flessibilità che si acquista attraverso un cambio di atteggiamento che responsabilizza il lavoratore proprio in relazione al suo ruolo di protagonista nella realtà e nella sua vita lavorativa. Si tratta di un cambio di mentalità che consiste nel lavorare imparando e nell’imparare lavorando, espressione di una cultura nuova: il lavoro è un’opportunità da vivere responsabilmente, come apprendimento continuo.
Questo è il cosiddetto learning by doing che fa venir meno il problema dell’età in cui ci si consegue un titolo di studio che oggi, nel sistema dell’apprendistato, può integrarsi con l’attività lavorativa anche a elevati livelli. Quindi, parafrasando Martone, il 28enne ha possibilità di non essere “sfigato”.