Tutti l’hanno capito: ci vorrebbe un Piano Marshall che metta al centro di un vero percorso riformatore la “questione giovani”. Ma i chiari di luna della campagna elettorale, più preoccupata dell’esito delle prossime elezioni che del destino delle nuove generazioni, per riprendere il celebre motto degasperiano, non sembrano molto in sintonia con questa drammatica emergenza.



Per capire come stanno effettivamente le cose, su questo versante, è di aiuto la nuova indagine, condotta dal centro Studi Datagiovani per Repubblica, centrata sull’andamento del precariato giovanile negli ultimi otto anni. I risultati di questa indagine sono sotto gli occhi di tutti: l’incidenza del precariato tra gli under 35 è passata dal 20% del 2004 al 39% del 2011, con una punta, nel primo trimestre di quest’anno, che va oltre il 40%. In sintesi, oggi la metà dei giovani sotto i 24 anni è precario, tra i 25 e 34 anni siamo al 23%, mentre per gli over 35 abbiano percentuali inferiori, se non dimezzate. A pagare di più, lo sappiamo, sono le donne, con una crescita doppia del precariato, sempre negli ultimi otto anni, rispetto agli uomini.



Se poi mettiamo a confronto questi dati con l’ultimo Rapporto Excelsior – secondo il quale “ogni anno una quota rilevante delle assunzioni programmate dalle imprese risulta di difficile se non impossibile reperimento: nel 2011 sono state quasi 117mila, il 19,7% del totale” – e teniamo a mente quanto detto dalla Cgia di Mestre sui 45.000 posti di lavoro rimasti vuoti nell’ultimo anno, abbiamo un quadro preciso della gravità del problema.

Una situazione, ce lo possiamo ripetere, che dovrebbe imporre un riallineamento tra filiere formative e filiere produttive, sapendo bene, quindi, in prima battuta, che il vero snodo è la transizione tra scuola-università e lavoro, e in seconda battuta, ma prima per significatività, che sono sempre le “persone […] la base della ricchezza delle nazioni”, per riprendere Adam Smith.



Mi piacerebbe, ad esempio, ai fini non solo informativi, ma per dare una mano concreta ai giovani e alle famiglie, che tutte le agenzie formative e le associazioni di categoria e degli ordini professionali si concentrassero su questo punto: chi oggi sceglie, ad esempio, un percorso universitario o uno di scuola media superiore sa realmente quali sono i dati di assorbimento del mondo del lavoro, secondo le diverse tipologie di competenze e di specializzazione? Conosce il quadro dei contratti e dei diversi livelli salariali? Chi, ancora, si avvicina, dopo il liceo, a un indirizzo umanistico sa quali sono le condizioni oggi di un laureato in questa o quella disciplina? Lo dico senza pretese deterministiche, ma come informazione di qualità per rendere ancora più consapevoli le scelte di vita.

Se, l’abbiamo visto di recente, nei test per l’accesso alle facoltà di medicina i dati ci dicono che solo uno studente su otto è riuscito a superare la prova, chi si preoccupa dei sette che sono rimasti esclusi? Il punto resta l’orientamento, a tutto tondo. Funzionale all’evoluzione dei talenti e delle attitudini, lo sappiamo bene, ma con un occhio di riguardo all’evoluzione del mondo del lavoro.

Nell’ottica di questo riallineamento delle filiere formative e produttive, è da ricordare la recente intesa, datata 26 settembre, tra Stato, Regioni e autonomie locali sulla semplificazione e promozione dell’istruzione tecnico-professionale (art. 52 della legge 35/12), con la proposta di “mappe”, per la costituzione dei Poli tecnico-professionali a livello provinciale e il potenziamento e l’autonomia degli Its, cioè dell’alta specializzazione tecnica. Ma anche il mondo della scuola sta comprendendo l’importanza di questi temi: dai dati Ansas relativi all’anno scolastico 2010-2011, sono state 1518 le scuole superiori che hanno realizzato 3991 percorsi scuola-lavoro, secondo varie modalità. Le strutture produttive, dalle aziende agli studi professionali, che hanno aderito sono state 23.347.

Dati importanti, ma che hanno riguardato, però, solo il 5% degli studenti delle superiori. Ed è in quest’ottica che nel luglio di quest’anno è stato riattivato il Comitato nazionale per l’alternanza scuola-lavoro, per dare attuazione a norme rimaste sino a oggi solo sulla carta, relative ai D.L. 77/05 e 22/08. Si tratta di sforzi tesi a far comprendere che è superato il modello di scuola poco attenta al valore della cultura del lavoro, qualunque sia il percorso seguito dagli studenti. Non basta: penso qui all’inadeguatezza, a volte, della nostra didattica delle lingue straniere, non solo nei confronti dell’inglese, ma anche in vista di nuove scelte, come l’arabo, il russo, il cinese, cioè le nuove frontiere del “villaggio globale”. La stessa attenzione andrebbe spesa nei confronti dell’apprendistato, anche per le recenti scelte normative, poco diffuso da noi, ma, invece, molto presente nel resto d’Europa.

A noi tutti spetta, dunque, rispetto a questi temi, una precisa responsabilità: dare una speranza ai nostri giovani. Per renderla però concreta, è essenziale, nel contempo, offrire dei punti di appoggio. Primo fra tutti: la pretesa del posto fisso, magari a seguito di una qualche raccomandazione, è, appunto, una pretesa, che fa parte di un passato oggi non più riproponibile. Perché la certezza non è più data dal posto che si occupa, ma dai talenti e dalle competenze continuamente messe in gioco, anche nei termini di un’evidente capacità relazionale e di intrapresa.

È in questa logica che flessibilità non dovrà più significare precarietà, ma, invece, dinamicità, capacità cioè di scegliersi il futuro, anche in mondi del lavoro diversi, sempre nuovi, capaci di stuzzicare originalità e sano protagonismo. In una società competitiva non in senso negativo, ma in senso positivo, perché è solo attraverso un confronto che si può imparare da tutti, per migliorare se stessi e la propria capacità di risposta alle sempre nuove esigenze e domande di competenze spendibili.

Le difficoltà sinora sottolineate si aggiungono, poi, a un altro fattore che va analizzato nelle sue conseguenze. Nel 2009, ci dice Datagiovani, è avvenuto il sorpasso tra la percentuale di adulti occupati e quella relativa ai giovani, con uno stacco che, all’inizio di quest’anno, ha toccato il 5% a favore dei più anziani. Dati che parlano da soli. E qui entra in gioco un secondo punto d’appoggio, rilevabile sempre da Datagiovani: la laurea non dà più alcun via libera automatico verso il mondo del lavoro. Solo le lauree tecniche offrono chance reali, ma mai comunque scontate. Per un semplice motivo: non conta il “sapere”, conta il “saper fare”, cioè le competenze spendibili nell’immediato e quelle che si riusciranno a maturare nel tempo a seguito della formazione continua.

Tra i laureati in ingegneria e medicina, per citare solo due casi, il rischio della precarizzazione si ferma al 10%, la metà rispetto ai colleghi delle facoltà umanistiche. Per i diplomati la situazione è altrettanto evidente: chi possiede un diploma tecnico la possibilità di precarizzazione si aggira sul 12%, non lontano dalle lauree tecniche. Non solo. Per i precari c’è da tenere in conto anche il salasso nella retribuzione, con un meno 20-33% rispetto ai non-precari.

Come si vede, in pochi anni è cambiato nettamente il nostro mercato del lavoro. Nel 2001 la rilevanza dei contratti a termine in Italia era del 9,6% contro il 12,4% della Germania e della media Ue, del 14,9% della Francia e del 32% della Spagna. Relativamente ai 14-24 anni la nostra media registrava un 23,3% contro il 35,9% della media Ue. E, in questa lettura, non vanno dimenticati gli oramai famosi Neet, passati dal 21% del 2005 all’attuale 23%.

Il cambio di marcia avvenne nel 2004, con l’entrata in vigore della legge Biagi. Lo scorso anno i contratti a termine sono stati il 50% circa sul totale. Una stortura non prevista da Marco Biagi, effetto della globalizzazione, oltre che dalla crisi esplosa nel 2007, che la riforma Fornero vorrebbe ridimensionare. Saranno i fatti che diranno la bontà o meno di questa legge.