Come interpretare la sempre minore partecipazione femminile al mercato del lavoro in Italia? Secondo i dati diffusi dall’Osservatorio sull’Imprenditoria Femminile curato dall’Ufficio Studi di Confartigianato, il tasso di inattività delle donne italiane raggiunge addirittura il 48,5%, mentre nel resto d’Europa si ferma al 35,1%. Ma è giusto concludere che questa situazione si debba principalmente alla carenza di “servizi di welfare che favoriscano la conciliazione”, come si legge nel comunicato stampa di Confartigianato?
Se guardiamo meglio i dati, ci accorgeremo che non è esattamente così: la vera mancanza che emerge, qui, è quella di un’organizzazione del lavoro dipendente più flessibile, che consenta alle madri lavoratrici di occuparsi dei loro figli senza essere costrette a delegarli a babysitter, asili nido o altri tra i suddetti “servizi” – scelta obbligata che finisce, in mancanza di alternative, per spingere molte di loro alle dimissioni. Lo dimostra il fatto che, sempre secondo i dati di Confartigianato, l’Italia risulta prima in Europa per numero di donne imprenditrici e lavoratrici autonome, ben il 16,4% delle occupate (contro una media continentale del 10,3%). Un segnale chiaro del fatto che, quando e come possibile, le donne rifuggono da un lavoro dipendente ancora troppo ancorato a orari e presenza, per gestire autonomamente la propria attività e tentare di armonizzare meglio i tempi della vita personale e familiare con quelli lavorativi.
A maggiore riprova di questa interpretazione va annoverato il fatto che i “molti altri paesi europei” citati da Confartigianato sono meglio posizionati, soprattutto dal punto di vista delle suddette alternative, contemplando la possibilità di riduzione o variazione degli orari di lavoro (come il part-time e la flessibilità oraria), nonché di telelavoro, accanto alle auspicate politiche familiari. In particolare, proprio nella Francia di cui parla il comunicato, alle famiglie sono state assegnate sovvenzioni e deduzioni fiscali per fronteggiare le spese cosiddette di “custodia dei figli in famiglia”, e ampliare quindi la possibilità di scelta dei genitori.
Ma anche senza andare in Francia, e restando in casa nostra, tra le regioni italiane che fanno rilevare il maggior coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro spicca la Provincia Autonoma di Bolzano (63% di occupazione femminile): una provincia tradizionalmente attenta al problema della conciliazione e promotrice di numerosi progetti di studio che si sono poi tradotti in buone pratiche.
Basta consultare la documentazione prodotta dall’Istituto per la Promozione dei Lavoratori (Afi-Ipl), o l’albo d’oro del certificato “famigliaelavoro” conferito dalla Provincia e dalla Camera di Commercio, per rendersene conto. Continuare a puntare il dito solo contro la carenza dei servizi è certamente più facile, e popolare, che insistere sulla necessità di cambiare in profondità l’organizzazione del lavoro. Ma fino a quando la scelta sarà questa, non c’è da meravigliarsi se la conciliazione tra famiglia e lavoro coinciderà sempre, solo, con la sconfitta della prima a opera del secondo: una sconfitta alla quale molte donne, molte madri si ribellano, per riguadagnare la propria vittoria.