L’Istat ci ha ricordato ieri i numeri dell’occupazione e, soprattutto, della disoccupazione in Italia. Il tasso di occupazione è pari al 56,9%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali nel confronto congiunturale ma è stabile nei dodici mesi. Il numero dei disoccupati, pari a 2.774 mila, aumenta del 2,3% rispetto ad agosto (62 mila unità). Su base annua si registra una crescita pari al 24,9% (554 mila unità). Il tasso di disoccupazione è pari al 10,8%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto ad agosto e di 2,0 punti nei dodici mesi. Tra i 15-24enni le persone in cerca di lavoro sono 608 mila e rappresentano il 10,1% della popolazione in questa fascia d’età. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero l’incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 35,1%, in aumento di 1,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 4,7 punti nel confronto tendenziale.
Aggiungiamo a questi numeri quelli dei Neet, ovvero di coloro che né studiano né lavorano: sono circa 2,2 milioni fra i 15 e 29 anni (il 23,4% della popolazione di riferimento), dato che cresce fino a 3,2 milioni se si apre la forbice fino ai 34 anni e colloca il Belpaese nel blocco dei peggiori in compagnia di Grecia, Irlanda, Bulgaria, Romania e Spagna.
Oramai, in tempi di recessione come questi, il leit motiv che si ripete mensilmente non fa più notizia, ma questa volta offre lo spunto per tornare, numeri alla mano, sulla questione giovanile e sulla battuta (infelice?) di Elsa Fornero.
Parliamo di una vera anomalia italiana, che tra le cose ha raggiunto i numeri più alti dell’Unione e della stessa area Ocse: non è questione che i giovani non trovano lavoro, piuttosto che non lo cercano. Nel confronto internazionale i nostri giovani si distaccano da quelli della maggior parte dei Paesi avanzati non certo perché più colpiti dalla tragedia della disoccupazione, ma precisamente per la ragione opposta: perché ritardano enormemente il loro ingresso nel mercato del lavoro. In media l’età del primo impiego in Italia è 22 anni, contro i 16,7 dei tedeschi, i 17 degli inglesi e i 17,8 dei danesi. Nei paesi normali ci si laurea intorno ai 22-23 anni spesso contribuendo al bilancio familiare e alle spese dell’istruzione, che non sono basse come da noi. In Italia ci si laurea tardi, spesso in prossimità dei 30 anni, e si comincia la ricerca di un lavoro a un’età in cui negli altri Paesi si è accumulata una cospicua esperienza professionale.
I 2,2 milioni di ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano, coloro per cui il tempo si è pericolosamente fermato, sono un po’ troppi per pensare che siano solo degli svogliati, dei pigri (lazy era più simpatico di choosy e forse più indicato) che non abbiano voglia di fare nulla. Cosa c’è dietro l’imponente fenomeno della rassegnazione e del calo del desiderio (rapporto Censis 2010)? C’è tutta la decadenza dei “luoghi della speranza” – così li definisce il Medico Psichiatra Prof. Pietropolli Charmet – quei luoghi, come la famiglia e la scuola, che per definizione fanno avvertire futuro e riferimenti a chi ne ha costitutivamente bisogno.



Tornando a quanto detto da Elsa Fornero, i giovani saranno anche schizzinosi ma qualcuno ha consentito loro di esserlo. Tuttavia, il Ministro – pur non brillando per le sue skills in comunicazione (se si parla di giovani choosysarà consentito anche parlare più opportunamente di skills, ovvero di abilità) – ha dato il la ad una polemica che contiene, e i numeri lo rendono evidente, una provocazione reale: i giovani devono accettare ciò che il mercato offre loro mettendo da parte le loro aspirazioni o devono inseguire il loro desiderio di dar forma al loro talento? Bene o male la questione si è dipanata in questa antinomia, col risultato che molti hanno criticato il Ministro, perché i giovani non devono rinunciare alle loro aspirazioni, altri hanno invece convenuto che i giovani, soprattutto in tempo di crisi, devono accettare ciò che il mercato offre loro.
Credo che si tratti di una provocazione interessante ma poco colta fino in fondo. Il problema del lavoro sul proprio desiderio e sul proprio talento non può innanzitutto essere determinato, per quanto condizionato, dal tempo di crisi. Si consideri anche che la comprensione delle proprie aspirazioni è un lavoro vero, non è immediata. Detto questo, il punto è se si possono comprendere le proprie aspirazioni nel lavoro non lavorando. Io credo di no.

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