L’accordo al tavolo della produttività è stato trovato. Tutte le Parti sociali, a eccezione della Cgil, hanno firmato ieri l’intesa per cercare di rendere un po’ più flessibile il mercato del lavoro italiano. In realtà, tale accordo non può dirsi storico, perché le risorse messe a disposizione sono molto limitate e il modello non è “rivoluzionario”. Nonostante questo c’è da dire che si va nella giusta direzione dato che viene introdotta maggiore flessibilità.
Ma andiamo ad analizzare i punti non del tutto convincenti. Le risorse sul tavolo sono pari a poco più di due miliardi di euro e verranno utilizzate per detassare il salario di produttività per i redditi fino a 40 mila euro. Tale parte variabile dello stipendio verrà tassata al 10%. In questo modo le aziende, nel momento in cui l’economia si riprenderà, avranno la possibilità di premiare la produttività dei propri dipendenti con un certo vantaggio fiscale. Non è molto, ma è già qualcosa in questo periodo di “vacche magre” per le casse vuote dello Stato.
C’è poi l’indicazione del fatto che il fisco dovrà diventare più equo. Tale misura è più una promessa che un’indicazione. Il cuneo fiscale italiano è eccessivamente elevato e questo provoca una perdita di competitività per le aziende italiane. Secondo i dati della Banca Mondiale nel rapporto annuale “Doing Business”, la pressione fiscale sulle medie imprese italiane raggiunge il 68%. Un livello elevatissimo che di equo non ha nulla.
Abbassare tale livello di tassazione è necessario per cercare di rendere i prodotti italiani più competitivi e al contempo la riduzione del cuneo fiscale è necessaria per alzare il livello del salario netto dei dipendenti. Il fisco italiano è uno dei più esosi al mondo, tanto che attualmente le entrate fiscali sono ormai al 60% del Prodotto interno lordo – tenendo in considerazione che nel Pil viene calcolata anche l’economia sommersa -, come ha dimostrato il Professor Ugo Arrigo su queste colonne.
La flessibilità è un punto essenziale per cercare di guadagnare competitività. La riforma tedesca del lavoro, attuata ormai quasi un decennio fa dal Partito socialdemocratico, andava proprio in questa direzione e ha dimostrato tutti i vantaggi della contrattazione di secondo livello. Le aziende devono poter contrattare a livello della singola impresa con i propri dipendenti per trovare il contratto migliore per le parti. Questi contratti di secondo livello sono essenziali per introdurre una certa flessibilità nel sistema. Mantenendo infatti una struttura rigida c’è il rischio che nel periodo di crisi attuale le aziende siano costrette a chiudere i battenti per mancanza di flessibilità contrattuale.
Il contratto Fiat siglato a Pomigliano e sottoscritto dalla maggioranza dei lavoratori, grazie al referendum aziendale, va proprio in questa direzione e dimostra che in Italia è possibile avere una contrattazione a livello aziendale. Quello che stupisce è che la Fiat sia dovuta uscire da Confindustria per raggiungere questi accordi di secondo livello, rompendo di fatto gli schemi “tipici” italiani.
Nell’accordo di ieri è mancata la firma della Cgil. Il sindacato di sinistra ha mostrato ancora una volta di non voler andare nella direzione della flessibilità rischiando di appiattirsi sulla stessa posizione della Fiom durante lo scontro con Fiat. Il risultato in quel caso fu una sconfitta al referendum e una perdita della rappresentanza sindacale con il relativo auto-isolamento. Questa volta la confederazione guidata da Susanna Camusso ha lasciato qualche spiraglio aperto che potrebbe rivelarsi decisivo nei prossimi mesi, in seguito alla fine della campagna elettorale.
L’accordo sulla produttività arriva proprio nel giorno in cui si certifica che in Italia questa parola rimane un tabù nella pratica. I dati dell’Istat pubblicati ieri dimostrano infatti che nel 2011 è cresciuta solo dello 0,3% rispetto all’anno precedente. Nell’ultimo decennio l’Italia sta accumulando un gap enorme con gli altri paesi d’Europa in termini di perdita di competitività. Il dubbio che l’accordo appena siglato non sia sufficiente è dunque lecito, perché pur andando nella giusta direzione, le risorse messe a disposizione per abbassare la pressione fiscale sono molto basse e la “rivoluzione” nel mondo del lavoro sembra ancora molto distante.