I dati sulla disoccupazione, quali diffusi dall’Istat nei giorni scorsi, diventano ancora più preoccupanti se coniugati con il report statistico pubblicato ieri e già ripreso da molti telegiornali. Si impenna di ben 4,2 punti percentuali il dato che mostra quante persone sono a rischio di povertà o esclusione sociale in Italia, calcolato a fine 2011 e corrispondente al 28,4% dei residenti. Traducendo il tutto in termini frazionari, operazione che solitamente inasprisce la percezione comune di questo tipo di risultati, scopriamo infatti che rischia la povertà più di un italiano su quattro. Come a dire che se lavori in una stanza con quattro persone, devi considerare che uno dei tuoi colleghi, se non tu, è a rischio, e questo arrotondando per difetto.

In questo quadro che vede la media europea inferiore a quella italiana (24,2%), il fattore lavoro influisce a più livelli. Innanzitutto, uno degli indicatori che combinati danno luogo alla percentuale di rischio povertà è la misura dell’intensità di lavoro; qui ci si discosta dalla media europea dello 0,5% (10% europeo vs 10,5% italiano), molto meno rispetto al totale, ma chi scrive è convinta che qui risieda la maggior parte delle cause di una scarsa ricchezza, tale da non mettere le persone in grado di vivere con serenità.

Bisogna sapere che la “bassa intensità di lavoro” si riferisce a tutte quelle persone che vivono in famiglie i cui componenti di età compresa tra i 18 e i 59 anni lavorano meno di un quinto del loro tempo. Specifichiamo di più questo indicatore, peraltro definito nell’ambito della strategia di Europa 2020.

Intensità di lavoro = tot mesi lavorati* / tot mesi teoricamente disponibili per attività lavorative*

*da parte dei componenti della famiglia durante l’anno di riferimento dei redditi. Dal calcolo sono esclusi gli studenti in età compresa tra i 18 e i 24 anni.

Dico che le cause sono qui perché è il reddito da lavoro la principale entrata e fonte di sostentamento di una famiglia e di una persona in generale; se si lavora un quinto del proprio tempo ne consegue che la ricchezza prodotta e spendibile sarà poca. Senza considerare tutti i riflessi psicologici che si determinano in un soggetto che non è materialmente occupato, che non può realizzarsi come persona attraverso il lavoro.

Ancora, dal report emerge che “le persone in famiglie che hanno come entrata principale un reddito da lavoro autonomo registrano in misura minore situazioni di difficoltà rispetto a quelle che vivono soprattutto di redditi da lavoro dipendente”; di qui, qualche considerazione. Il mondo del lavoro autonomo risulta ancora oggi quello che permette il tenore di vita più esente da deprivazione. Eppure in Italia questo non è vero in assoluto; i dati del 2010 (cfr. prospetto A1 in Appendice al report) dicono che la media del reddito familiare netto nel Sud e nelle Isole è pressoché la stessa per il lavoro dipendente (28.114 euro) e autonomo (28.979 euro), mentre impressiona il divario esistente tra Nord e Sud nel mondo delle professioni e degli autonomi in generale. Al Nord, infatti, il reddito medio è di 35.842 euro per i dipendenti e ben 47.599 euro per gli autonomi.

Parlare di reddito e condizioni di vita ripropone con forza il tema della differenza che esiste circa la remunerazione del lavoro nel nostro Paese. Se un professionista di Milano percepisce un reddito notevolmente superiore a quello di un suo collega campano, ad esempio, non ci si potrà stupire se il livello di istruzione e cultura medio resti squilibrato tra le due regioni di riferimento, potendo il primo investire nella formazione dei propri figli molto di più del secondo.

In sintesi, la statistica impone di nuovo di considerare il fattore lavoro, in tutte le sue sfaccettature fattuali e giuridiche, come la prima emergenza che qualsiasi Governo deve fronteggiare in questa congiuntura.

 

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