Da quando si è insediato il governo Monti, l’emergenza lavoro e i relativi provvedimenti e azioni di intervento hanno preso la scena. Politiche attive del lavoro e flexsecurity sono diventati termini usuali per identificare gli strumenti di intervento e hanno sostituito nella comunicazione il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali e la riforma dell’apprendistato. Le politiche attive del lavoro sono entrate prepotentemente nel dibattito sulle riforme del lavoro a seguito della lettera inviata dalla Bce al governo italiano nella scorsa estate: “Dovrebbe essere adottata un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

La lieve riduzione dell’occupazione (22.903.000 unità nel 2011, -23.000 rispetto al 2010), la crescita della disoccupazione (2.243.000, +20.000 dal 2010), la prevedibile crescita dei lavoratori in cassa integrazione (729.000 nel 2010 e già 600.000 nel periodo gennaio-settembre 2011), che al termine del periodo di sospensione incrementeranno il bacino della mobilità e della disoccupazione, ci dice che il bisogno di lavoro crescerà. Ma il dato che rimane preoccupante riguarda i lavoratori cosiddetti scoraggiati. Nel 2010 tra le persone inattive sono 2.764.000 i disponibili a lavorare, ma che non cercano lavoro (530.000 in Germania, 309.000 in Francia). Questo è il vero dato, preoccupante perché negli anni non si è ridotto: infatti, la percentuale degli scoraggiati sulle forze di lavoro è passata dall’8,9% (del 2004) all’11,1% (del 2010); la classe di età 15-25 è aumentata dal 21,6% (2004) al 31,9% (2010), le persone con titolo di studio fino alla terza media sono passati dal 12,1% (2004) al 17,3% (2010).

Questi dati stanno a indicare una pericolosa crescita della popolazione in difficoltà occupazionale (svantaggiata) e c’è quindi bisogno di buoni servizi al lavoro e politiche attive che portino al lavoro. In realtà, il nostro Paese non spende poco in politiche per il lavoro. La relazione annuale sulla situazione economica del Paese prodotta dal ministero dell’Economia e presentata lo scorso dicembre, ci dice alcune cose interessanti. Complessivamente per le politiche del lavoro attive e passive si sono spesi nel 2010 24.588.039 di euro, di cui 19.339.799 in politiche passive e 5.248.241 in politiche attive. Sulle passive c’è poco da dire, perché si tratta di sostegno al reddito per lavoratori che hanno sospeso il rapporto di lavoro o che sono stati espulsi dal lavoro. Un Paese che spende 24,5 miliardi in sussidi senza chiedere nulla in termini di impegno sulla ricollocazione (lasciando di fatto che gli eventi volgano al meglio e le imprese riassumano) è in grado di trasformare il sistema generato spingendo le persone a cercare un lavoro?

Riguardo le politiche attive vediamo di cosa trattano. La definizione corrente di politiche attive suggerisce l’insieme di azioni volte a riportare al lavoro una persona uscita o a rischio di uscita dal mercato del lavoro agendo sia sulle competenze che sull’attitudine a cambiare lavoro. Infatti, servizi personalizzati di orientamento, bilancio delle competenze, ricerca attiva del lavoro, insieme a formazione professionale specialistica sono finalizzati a trovare un lavoro che nel tempo sia duraturo. Quindi il criterio con cui definire le politiche attive da quelle passive c’entra con il prodursi di occasioni di un incontro tra il lavoratore e un’impresa che richiede competenze portate dalla persona.

Dei 5,243 miliardi di euro che spendiamo 309 milioni vanno in incentivi all’autoimpiego, 1,8 miliardi in incentivi all’assunzione, 417 milioni in incentivi alla stabilizzazione, 7 milioni in incentivi al mantenimento dell’occupazione, 12,8 milioni in sgravi a carattere territoriale, 108 milioni in incentivi ai disabili, 90,8 milioni per la creazione di posti di lavoro ovvero lavori socialmente utili. Un Paese che spende più di 5 miliardi di euro in attività che poco hanno a che fare con la “riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi” è in grado di trasformare il proprio sistema di servizi all’occupazione in chiave di flexsecurity?

In passato si è preferito considerare politiche attive la combinazione tra formazione e incentivi all’assunzione. Quando le cose vanno bene e i posti di lavoro sono abbondanti, tutto funziona. Ma quando i posti di lavoro sono scarsi e la propensione all’assunzione delle imprese più cauta e la disponibilità a cambiare il lavoro fragile, sono necessari altri strumenti. Ne suggerisco due.

Primo. Cominciamo con la dichiarazione di immediata disponibilità che ha rappresentato una vera novità da quando è stata introdotta. Significa che il lavoratore entrato in un percorso di politica attiva (e quindi non lavora nella propria azienda perché sospeso e il suo tempo lo usa anche per riqualificarsi o cercare un altro lavoro) e che è stato preso in carico da un servizio competente per programmare un pacchetto di servizi volti al reinserimento nella stessa azienda, oppure nella ricollocazione in altra azienda, dichiara la sua disponibilità a partecipare alle attività formative e ai colloqui di lavoro pena la decadenza del sostegno.

Proviamo a chiedere quanti sono i lavoratori che non sono in regola con la disponibilità e quante sono le proposte di lavoro congrue presentate. Evidentemente qualcosa non funziona. La dichiarazione di immediata disponibilità e la presenza di offerte congrue dovrebbe riportare al lavoro le persone. Cominciamo a registrare le offerte congrue e misuriamo gli operatori delle politiche attive sulla capacità di trovare posti di lavoro e sanzioniamo i lavoratori che le rifiutano.

Secondo. I servizi per l’impiego sono la prima politica attiva. Infatti, nelle regioni dove esiste una storia di servizi, pubblici e privati, il loro utilizzo permette di incrociare maggiormente la domanda con l’offerta. A fine dicembre sono usciti i dati Eurostat sui metodi usati per cercare lavoro e sul tipo di servizi che utilizzano i disoccupati europei che cercano attivamente lavoro. È interessante notare che il canale degli amici è usato per il 69,1% in Europa e rispettivamente per il 76,9% in Italia, il 40,2% in Germania, il 54,4% in Francia, l’85,4% in Spagna e il 67,8% in Danimarca (quella della flexsecurity). Il canale dei Public employment services è usato per il 56,1% in Europa e rispettivamente per il 31,9% in Italia, l’82,8% in Germania, il 59,2% in Francia, il 36,8% in Spagna e il 45% in Danimarca. Infine, il canale delle Agenzie private per il lavoro è usato per il 22,6% in Europa e rispettivamente per il 18% in Italia, il 15% in Germania, il 28,7% in Francia e il 31,4% in Spagna, mentre per la Danimarca il dato è incerto.

Cosa dicono questi numeri? Che nel nostro Paese la creazione di ottimi servizi pubblici per il lavoro a livello nazionale è una partita che abbiamo perso da tempo. E ce ne accorgiamo proprio quando, vista la crescita dei numeri, è necessario che nessun lavoratore che ha perso il lavoro venga lasciato solo nella ricerca di un nuovo lavoro. Ma questo non basta più. Il servizio che serve deve riportare al lavoro aggiornando le competenze e incontrando nuove occasioni di lavoro. La sfida reale e concreta del bisogno di trovare un lavoro misurerà inesorabilmente sia le Agenzie per il lavoro (pubbliche e private) che i lavoratori alla ricerca di un impiego. Cambiare il sistema parte da questo punto e poi si potrà affrontare la flexsecurity.