Gli ultimi dati Istat mostrano un peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro nazionale con l’Italia che raggiunge i livelli del 2001. Nel dicembre 2011 il tasso di disoccupazione è salito all’8,9% (+0,1% rispetto a novembre 2011) interessando così 2.243.000 persone (+20.000) su quasi 23 milioni di occupati, seppur con una media europea più alta (10,4%). Ciò che è davvero allarmante è, però, la percentuale della disoccupazione giovanile italiana, della fascia 15-24 anni, oggi come oggi al 31% mentre, a livello europeo, ha raggiunto il 17,2%, aumentando di quasi 5 punti percentuali rispetto alla situazione pre-crisi nell’area Ocse.
Le previsioni a medio termine non sono, inoltre, positive, per cui il tasso di disoccupazione dovrebbe crescere ulteriormente in molti paesi tra cui l’Italia: prospettiva, questa, che non può non inquietare, accertato che le coorti giovanili risentono fortemente della situazione economica. Nei paesi economicamente più sviluppati, in media, il rapporto fra tasso di disoccupazione giovani/adulti è di 2,3 (2° trimestre 2011), mentre in Italia lo stesso rapporto è di 3,9, quindi il rapporto è di quasi 4 a 1; vale a dire la disoccupazione giovanile è 4 volte più elevata di quella della fascia di età 25-54 anni ed è ben al di sopra della media europea (fonte Ocse).
Ulteriori dati che confermano la gravità della disoccupazione giovanile sono quelli riferiti alla durata della transizione scuola-lavoro. Il tempo medio, in mesi, prima di trovare un qualche impiego in Italia è di 25,5 mesi, rispetto ai 24,3 della Francia, ai 19,4 del Regno Unito, ai 18,9 della Germania e ai soli 6,3 degli Stati Uniti. Il tempo medio, invece, prima di trovare un lavoro a tempo indeterminato è di 44,8 mesi in Italia, 40,7 in Francia, 36,1 nel Regno Unito e 33,8 in Germania (fonte Ocse 2009, Quintini e Manfredi).
Rispetto a questi dati, sicuramente non inediti, tra i più elevati tra le principali economie del vecchio continente, quali considerazioni possono essere svolte? Qui di seguito si cercherà di mettere l’accento su due gruppi giovanili che destano più preoccupazione: per alcune fasce di giovani vi è l’eccessiva durata della transizione scuola-lavoro, giovani che potrebbero essere definiti, con qualche licenza, “persi in transizione” (lost in transition) e che l’Ocse chiama “lasciati dietro” (left behind); questi non sono né inseriti in un percorso educativo, né in uno formativo e neanche in uno occupazionale a causa del mancato ottenimento di un titolo di studio, molti in possesso del solo diploma di scuola media, tanti residenti nel Mezzogiorno, oppure perché immigrati o appartenenti a gruppi particolarmente svantaggiati, in buona sostanza quelli che vengono chiamati, dagli addetti ai lavori, Neet (Not in education, employment or training).
Un secondo gruppo di giovani si caratterizza, invece, per l’elevata frammentazione delle traiettorie occupazionali, definiti dall’Ocse “scarsamente integrati” (poorly integrated), a causa di titoli di studio deboli oppure con carenze in termini di competenze specialistiche richieste dal sistema produttivo nazionale, formato da piccole e piccolissime imprese.
Il primo gruppo, i giovani esclusi con bassa qualificazione, con una prima transizione fallimentare, ovvero i Neet, hanno raggiunto il 20% sull’insieme della popolazione italiana nella fascia di età 15-24 anni; essi rappresentano un bel problema, perché si configurano oramai come un fenomeno persistente. Questo lungo periodo di inoccupazione, carenza di titoli di studi e insufficiente formazione dei Neet non è purtroppo un periodo passeggero: essi rimangono intrappolati in un limbo che si autoalimenta in quanto distaccamento dal mercato del lavoro e scoraggiamento individuale tendono a perpetuare, in maniera indefinita, la loro attuale condizione.
Il secondo gruppo, di non facile quantificazione statistica, si caratterizza per transizioni molto frastagliate, parecchio variegate, con brevi periodi di attività lavorativa, con differenze assai marcate all’interno di questo gruppo; queste traiettorie così diversificate sono dovute al mix tra credenziali educative acquisite e assets socio-economici messi a disposizione dalla famiglia di origine (sia risorse economiche che capitale sociale). Sia le une che gli altri sono risorse strategiche da muovere, in maniera oculata, nella ricerca di un primo impiego e/o di quello definitivo; i diversi esiti della transizione scuola-lavoro provocano, di conseguenza, notevoli polarizzazioni e segmentazioni. Ne deriva, allora, un evidente paradosso perché l’istruzione è divenuta sempre più una necessità, ma sempre meno sufficiente, da sola, ad assicurare il successo lavorativo. L’investimento congiunto di tempo, sforzo cognitivo e risorse economiche seppur vitali, in questo “passaggio” dalla scuola al lavoro, non è più in grado di assicurare un adeguato “ritorno” in termini di posizioni occupazionali e di status socio-economico.
La stessa università di massa con l’inflazione apportata dalle lauree brevi – più le lauree umanistiche, meno quelle tecniche e scientifiche – potrebbe aver aggravato la situazione sfornando pletoriche legioni di disoccupati intellettuali e, nello stesso tempo, persone socialmente declassate. Bisogna, difatti, registrare una certa svalutazione del titolo di studio in considerazione di una struttura produttiva nazionale basata sulle piccole e medie imprese, perlopiù in settori produttivi in cui il saper fare è molto più importante delle conoscenze acquisite mediate un titolo formale.
La qualità dei posti di lavoro conseguiti da questi giovani fa registrare, quindi, moltissime differenze, in quanto le tipologie contrattuali del tempo determinato e atipico sono molto elevate in Italia e, nella maggioranza dei casi, sono subite, in mancanza di alternative migliori. Questi giovani, paradossalmente, fanno parte del ceto medio per quel che concerne le loro credenziali educative, ma del ceto basso – che fa fatica a mettere insieme i mezzi basici di sussistenza – per quel che riguarda la loro posizione economica, il potere e il prestigio sociale.
(1 – continua)