L’intervento su queste pagine (qui la prima parte e qui la seconda) di Achille Paliotta, ricercatore Isfol, merita più di una semplice ripresa. Perché, in forma sintetica, offre dati e riflessioni che dicono tutta la gravità del momento, con protagonisti, nonostante loro, i nostri giovani. Prima però di riprendere la riflessione di Paliotta, vorrei fermare l’attenzione sul nord-est, per il suo contesto paradigmatico. Recentemente è stata presentata un’indagine curata dal sociologo Ludovico Ferro per conto della Fondazione Corazzin di Mestre, che ha un esito che fa già intuire ciò che, più o meno sottotraccia, sta maturando nei giovani del nord-est: quasi il 30% dichiara di considerare scontato che non troverà lavoro in Italia, per cui la prospettiva di un’esperienza all’estero è già messa in preventivo nei loro sogni. Ovviamente, qui si parla di profili professionali legati all’alta formazione. Solo il 45% sogna ancora di rimanere fermo nella terra natia, “vicini a mamma a papà”, come si era espressa la ministra Cancellieri. Il 15% circa guarda ancora al nostro Paese, ma non vicino a casa, bensì a Milano e a Roma, soprattutto.
Se diamo un’occhiata ai dati occupazionali a un anno dalla laurea non possiamo dare loro torto: il 48% di quelli che hanno scelto l’estero ha già un lavoro, contro il 34% di quelli che sono rimasti in Italia. E all’estero guadagnano di più: 1600 euro contro i nostri 1000 (dati Alma Laurea). I legami di famiglia non sono quindi più determinanti, perché incombe la domanda di lavoro, e attraverso il lavoro la realizzazione personale. Anche se il pensiero del ritorno a casa, in un adeguato contesto professionale, sarà comunque sempre presente.
Il vero problema, come si intuisce, è di fondo: se ne va dal nostro Paese una fetta importante di giovani ben preparati, che potrebbero rappresentare il volano della ripresa e della crescita. Sono gli eredi involontari delle incrostazioni del nostro mondo del lavoro. Un esodo che ci penalizza tutti. Se guardiamo, però, oltre la cortina dei profili di alta specializzazione, abbiamo un quadro ancora più preoccupante: i dati ben riassunti da Paliotta offrono degli squarci che dovrebbero far tremare i polsi a tutti i nostri decisori politici, sociali, imprenditoriali, sindacali.
Pensiamo, ad esempio, al fenomeno Neet, cioè ai giovani, come si diceva un tempo, “senza né arte, né parte”. Al centro di diverse indagini: Istat, Banca d’Italia, Isfol, Italia Lavoro, Censis. In Europa i dati parlano di 8 milioni di giovani dai 15 ai 24 anni. Una bomba sociale. In Italia sono il 20%, ci ricorda Paliotta, dei pari età (oltre 1 milione se si guarda ai 15-24 anni, ma 2,2 milioni se teniamo conto dei giovani sino ai 35 anni). Questi ragazzi che non studiano né lavorano, per la sola Italia hanno un “costo” di 26 miliardi di euro, secondo stime della Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Immaginiamo se lavorassero: quante risorse, quante opportunità, quante dignità da riconoscere e valorizzare?
Oramai conosciamo tutti i dati sulla disoccupazione giovanile, sulla faticosa transizione scuola-lavoro, sugli effetti della dispersione scolastica e universitaria, sull’eccessiva segmentazione del nostro mercato del lavoro. Con un esito paradossale, ben evidenziato dal nostro ricercatore: “L’istruzione è divenuta sempre più una necessità ma sempre meno sufficiente, da sola, ad assicurare il successo lavorativo”. Pensiamo ai tanti laureati con un pezzo di carta in mano che nessuno richiede, ma pensiamo anche al faticoso avvio degli Its, cioè degli Istituti tecnici superiori, corrispondenti al V livello Eqf, che sono partiti lo scorso settembre e che stanno offrendo a giovani diplomati tecnici opportunità inedite di qualificazione professionale. Una novità per il nostro Paese, ma non in Europa.
Se l’Italia, poi, è il secondo Paese manifatturiero dell’Ue, dopo la Germania, fatta da un pulviscolo di piccole e medie aziende (l’articolo 18, di cui tanto si discute, nella provincia di Vicenza, che è la terza provincia industriale italiana dopo Milano e Torino, riguarda solo il 30% delle aziende), è evidente la difficoltà di coniugare adeguatamente alti profili universitari e mercato del lavoro: “Il saper fare – è sempre Paliotta a parlare – è molto più importante delle conoscenze acquisite mediante un titolo formale”. Ecco l’importanza dell’apprendistato per tutta la filiera formativa, unica via, concreta, per combattere quella che lui chiama la “trappola verso una precarietà occupazionale indefinita”.
E qui entriamo più nel cuore di un contesto giovanile, figlio di una segmentazione del mercato del lavoro che non sempre tiene conto della formazione personale, segnato da scoramento, dalla demotivazione, dal venir meno di stimoli: è su questi aspetti che una riforma del mercato del lavoro dovrebbe puntare. Mentre, lo sappiamo, da noi prevale quella che Paliotta definisce “l’assioma pochi promossi, nessun bocciato”. Cioè l’immobilismo, la fine del lavoro come ascensore sociale, il disconoscimento del merito e della passione, la cura del “posto fisso” come prima preoccupazione. Retaggi ancora presenti, in particolare, nel mondo del pubblico impiego, in primis nella scuola. Dovremmo, in poche parole, garantire maggiori tutele alla persona che lavora, mentre alle sue competenze, da sottoscrivere a contratto, dovremmo poter offrire maggiori opportunità di crescita e valorizzazione. Dallo Statuto dei Lavoratori allo Statuto dei Lavori.
Queste anomalie e contraddizioni, secondo Paliotta, vanno poi a incidere sulla struttura di quel ceto medio che è l’asse portante del nostro tessuto sociale, economico, culturale. Un ceto sempre più senza un’identità, disperso nella logica del divertissement, del consumo di se stessi e delle proprie relazioni, forse incapace di alzare la testa e di guardare in prospettiva, per cui la marginalizzazione crescente dei giovani, in una società saldamente nelle mani dei padri e dei nonni, non ne è altro che la logica conseguenza.
È comunque difficile pensare a un nuovo ‘68, a una sorta di “primavera” del nostro mondo giovanile, italiano, europeo, occidentale, stanco dei nostri “diritti acquisiti”, cioè di quell’immobilismo che ha scaricato su di loro, sui nostri figli, le colpe dei padri, le nostre colpe? Oggi l’unica parola chiave che conta è “default”, il rischio default per salvare i conti pubblici. Ma il vero rischio default è l’esplosione di un nuova bomba giovanile contro le colpe dei padri.