L’Istat ha diffuso in questi giorni i dati sull’occupazione riferiti al mese di febbraio: il tasso di disoccupazione si attesta al 9,3%, in aumento di 0,2 punti percentuali rispetto a gennaio e di 1,2 punti su base annua, il top dal 1992. Nel quarto trimestre 2011, il tasso di disoccupazione è stato pari al 9,6%, nove decimi di punto in più rispetto a un anno prima. Per quel che riguarda i giovani, a febbraio il tasso di disoccupazione sale al 31,9% (+0,9 punti rispetto a gennaio e +4,1 punti su base annua). Nel quarto trimestre del 2011, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è salito al 32,6% dal 29,8% dello stesso periodo del 2010.



Il dibattito a proposito della necessità di interventi per l’occupazione, in particolare per quella giovanile, è più che mai vivo; come se in questi anni non si sia fatto nulla in merito: si pensi, per esempio, al contratto di apprendistato, sostenuto da tutte le Regioni e le Parti Sociali e riaffermato in modo deciso dal governo dei Professori. Ricordiamo, tuttavia, che l’Unione europea ha chiaramente manifestato nella sua strategia per l’occupazione “Europa 2020” l’intento di tornare a essere economia protagonista nel mondo, attraverso un mercato del lavoro più inclusivo la cui effettiva occupazione sia strumento per combattere la povertà. All’economia e all’occupazione viene quindi assegnato un ruolo strumentale, la cui finalità di sviluppo è tale da consentire all’uomo di vivere dignitosamente, in condizioni di superamento degli indici di povertà.



Eppure, più che un abbattimento della povertà, quello che si sta registrando di questi tempi è una continua e inarrestabile ascesa del gettito fiscale. Non si tratta di una prerogativa italiana, la pressione fiscale sta aumentando un po’ ovunque in Europa. In Italia è ormai vicina al 50% del Prodotto interno lordo e – in prospettiva di pareggio di bilancio – ci si ostina a ridurre deficit e costi pubblici aumentando le imposte. Ciò è inutile e, forse, anche controproducente: ogni beneficio rischia, infatti, di essere annullato dall’effetto recessivo di un ulteriore aumento della pressione fiscale.



Nelle ultime quattro manovre che si sono susseguite per correggere i nostri conti pubblici, la pressione fiscale è cresciuta di quasi 2 punti: dal 44,7% del Pil nel 2010 al 46,5% fra due anni. Le stesse manovre hanno anche ridotto le spese al netto degli interessi; a prima vista di 3 punti, dal 49,5% al 46,5% del Pil. A dire il vero, una parte significativa di questa riduzione di spesa è avvenuta mediante tagli nei trasferimenti dello Stato a Regioni, Province e Comuni. Gli enti locali non hanno supplito ai minori trasferimenti riducendo a loro volta la spesa, ma hanno aumentato alcune imposte, come ad esempio le addizionali Irpef da pochi giorni in vigore.

Si intuisce così che dei circa 5 punti di correzione dei conti pubblici attuati nei mesi scorsi, quattro sono stati ottenuti tramite aumento di imposte e uno soltanto per effetto di minori spese. Il risultato finale è che, fra due anni, la pressione fiscale complessiva (la somma delle imposte locali e nazionali) supererà il 50%. Ma, appunto, questa tendenza si sta purtroppo registrando nella maggior parte dei paesi dell’Unione. Sorge però, a questo punto, spontanea una domanda: come si può combattere la povertà alzando continuamente la pressione fiscale?

Rispetto al tema del Pil, il problema della povertà – che dovrebbe rappresentare la prima preoccupazione – pare piuttosto sottodimensionato. Il Pil è inoltre un indice estremamente complesso e per questo soggetto a molteplici interpretazioni. Sembrano a questo riguardo molto attuali le parole dell’economista pakistano Mahbub ul Haq – pioniere della teoria dello sviluppo umano – che nel 1971 si espresse così: “Ci hanno insegnato a preoccuparci del nostro Pil perché quest’ultimo si sarebbe preso cura della povertà; dobbiamo rovesciare quest’impostazione e preoccuparci della povertà, perché essa si prenderà cura del Pil”.

Il dibattito sul Prodotto interno lordo appare oggi un po’ sterile e obsoleto, alimenta di continuo l’ossessione di muovere questo indice di crescita economico e non propone nulla di concreto per lo sviluppo. Nel frattempo, il 2010 è stato anno europeo contro la povertà: il 17% della popolazione europea è attualmente considerata a rischio di povertà, cioè guadagna meno del 60% dello stipendio medio nazionale, e quasi la metà di queste persone ha un lavoro. La disoccupazione è la causa primaria, ma quell’8% della popolazione che vive sotto la soglia della povertà nonostante abbia un lavoro sta crescendo rapidamente per colpa della crisi.

Nonostante Haq e nonostante l’anno 2010, la povertà non è stata sconfitta e in molti casi è aumentata. Forse val la pena di impegnarsi per contrastarla concretamente: a parte il fine virtuoso, essa può diventare inattesa risorsa per la crescita.