La crisi è durissima. Per le famiglie senza dubbio, ma anche le imprese non se la passano tanto bene. Si sente spesso dire che l’Italia soffre di una perdita di competitività. Gli ultimi dati dell’Unione europea indicano che il costo italiano del lavoro non è così elevato rispetto ai paesi del Nord Europa e di alcuni dell’Europa Continentale. In particolare, il costo del lavoro è di circa 27 euro per ora lavorata contro i 39 che si raggiungono in Belgio.



Questo dato dimostra che il costo del lavoro italiano non è pesantissimo, ma non dice tutto. Infatti, per studiare a fondo e in maniera completa la situazione, è necessario fare un’analisi storica del livello del costo del lavoro orario (a questo proposito si veda il grafico più in basso). L’Italia ha adottato l’Euro nel 2002, ma è dal 1999 che si sono fissati i tassi di cambio. Di fatto, il nostro Paese, come ogni altro all’interno dell’area Euro, non può svalutare la propria moneta. Questa impossibilità di utilizzare l’arma della svalutazione competitiva introduce la necessità di utilizzare altre politiche per cercare di non perdere competitività.



Queste politiche si possono riassumere con una semplice parola: riforma. In Italia è essenziale compiere una riforma del lavoro che introduca maggior flessibilità e favorisca la contrattazione di secondo livello, in modo da permettere alle aziende di legare maggiormente i salari dei dipendenti ai risultati. È quello che hanno chiesto e ottenuto Sergio Marchionne e la Fiat ed è quello che si è fatto in Germania.

L’introduzione di maggior flessibilità è la riforma cardine del mercato del lavoro italiano, che rimane, nonostante gli interventi effettuati negli ultimi 15 anni (in particolare, la legge Treu del 1997 e la legge Biagi del 2003), quello che vede un indice di attività tra i più bassi in Europa, anche per l’altissimo tasso di lavoro sommerso che caratterizza il nostro mercato.



È infatti limitato guardare il solo dato della disoccupazione, perché tale statistica indica solamente quante persone vogliono lavorare, o meglio stanno cercando il lavoro attivamente. In Italia, più che in ogni altro Paese, invece, le persone hanno perso anche la speranza di trovare un lavoro e non lo cercano nemmeno più. Il tasso di attività italiano nel 2010 era pari al 62%, contro il 76% registrato in Germania.

Questa differenza è dovuta soprattutto alla scarsa partecipazione nel mercato del lavoro delle donne, che può essere accresciuta attraverso interventi di politica attiva utili a favorire il cosiddetto work-life balance: la conciliazione vita-lavoro oggi non è più solamente l’asilo nido in azienda o il campus estivo, ma si è molto sviluppata soprattutto attraverso gli strumenti dell’organizzazione del lavoro (il telelavoro, il part-time o la riduzione dell’orario lavorativo, il job sharing, la flessibilità dell’orario lavorativo, i meccanismi di compensazione dell’orario lavorativo, i permessi e congedi, la compressione dell’orario lavorativo settimanale, ecc). È chiaro che una donna, se è facilitata nel suo ruolo di madre e di moglie, può avere una posizione diversa, e quindi più attiva, nei confronti del lavoro.

La tragedia che affligge il nostro mercato del lavoro non è quindi solo la disoccupazione, ma soprattutto la bassa partecipazione allo stesso. Una riforma del lavoro deve essere dunque completa e trattare i moltissimi aspetti differenti esistenti. Non si tratta solamente di toccare l’articolo 18 in cambio di maggiori garanzie e maggiori ammortizzatori sociali. Questo è infatti un punto a margine di quella riforma del lavoro che il Governo deve compiere per fare recuperare all’Italia la competitività perduta.

Cosa potrebbe succedere altrimenti? Dal 1999 al 2011, l’Italia come ogni Paese dentro l’area Euro non può più svalutare la propria moneta. È bene dunque prendere il 1999 come anno di riferimento e vedere l’andamento del costo del lavoro. Nella zona Euro tale variabile è aumentata del 22% nel periodo considerato. La Germania, che ha avuto il coraggio di fare una riforma del lavoro a metà degli anni 2000, ha invece visto crescere il proprio costo del lavoro di solo il 6%. In questo modo le aziende tedesche hanno conquistato competitività. In Italia invece la situazione è ben diversa. Rispetto alla Germania, il nostro Paese ha perso 26 punti percentuali di competitività. Un’enormità che non ha uguali negli altri grandi Paesi della zona Euro. Solo la Spagna ha una situazione assimilabile con un costo del lavoro che è aumentato del 30%, due punti in meno all’Italia. La Spagna ha tuttavia registrato nell’ultimo triennio una riduzione di 5 punti percentuali del costo del lavoro, dimostrando che le riforme effettuate cominciano a dare gli effetti sperati, almeno dal punto di vista del costo del lavoro. In sintesi, guardare il dato di un singolo anno è riduttivo e incompleto. L’analisi deve essere compiuta dal momento in cui si sono fissati i tassi di cambio. Solo in questo modo è purtroppo possibile evidenziare che l’Italia ha perso il treno della competitività.

 

 

È la ragione per cui il nostro Paese ha bisogno e urgenza di una riforma del lavoro completa che tocchi tutti gli aspetti di questo mercato così complicato e al contempo andare verso una maggior flessibilità nella regolazione dei rapporti di lavoro e una crescente contrattazione di secondo livello.

Per quanto riguarda la maggior flessibilità, tendenzialmente questa riforma non pare andare nella direzione giusta. Sin dall’inizio il ddl Fornero ha avuto l’esplicito obiettivo di favorire una più equa distribuzione delle tutele dell’impiego, contenendo i margini di flessibilità progressivamente introdotti negli ultimi vent’anni, limitandone l’uso improprio e distorsivo – e quindi la precarietà che ne deriva – riconducendoli all’uso proprio e previsto dal legislatore.

Tutto giusto, ma il metodo non può essere il crescente costo della flessibilità, vale a dire la crescente tassazione sull’utilizzo dei contratti flessibili. È come pensare di combattere l’evasione alzando il gettito fiscale: l’evasore continuerà a evadere, l’onesto contribuente pagherà sempre di più… La flessibilità è esigenza del mercato, non è invenzione o fantasia di chi lo regola, e soprattutto in tempi duri come questi le imprese andrebbero sostenute con interventi per la crescita e lo sviluppo, non con provvedimenti restrittivi.

La scorsa settimana sono stati presentati gli emendamenti dai relatori del ddl lavoro al Senato, sicuramente ci sono delle migliorie (salario minimo per i co.co.pro. e nuove norme su partite Iva e licenziamento e la definizione di un salario base per i contratti a progetto), ma la direzione non pare quella di offrire alle imprese strumenti per la crescita. In Italia rimaniamo legati a un dibattito sul lavoro che ancora non consente quel salto di qualità che può portare a vedere nell’impresa l’epicentro del lavoro: imprenditore è colui che crea lavoro e certamente il lavoro non lo creano il Sindacato o la politica, anzi… eppure da sempre in Italia gli imprenditori non hanno vita facile, basta contare i suicidi di questi tempi: non è solamente la crisi, ma nella difficoltà sono stroncati dal peso della burocrazia e da leggi che non facilitano loro, in tempi drammatici, di contenere i costi delle proprie aziende. Nel frattempo però arrivano i decreti ingiuntivi di Equitalia, e l’imprenditore in difficoltà non sa più cosa fare…

Per quanto riguarda la contrattazione di secondo livello, permangono ancora resistenze all’interno del sistema confederale, e non solo da parte della Cgil, ma anche da parte di Confindustria, che naturalmente dalla contrattazione aziendale rischia di uscire indebolita. È quantomeno bizzarro come l’associazione degli industriali in Italia resista nel favorire il sistema industriale: questo la dice lunga sulle logiche che nel Bel Paese tengono in vita parte del mondo associativo, spesso ridotto a mero centro di potere.

L’uscita di Fiat da Confindustria può segnare un passaggio importante. D’altra parte, aziende grandi e piccole hanno nell’ultimo anno fatto scadere la tessera dell’associazione e altre hanno annunciato la loro dipartita: Ibm, Ansaldo, Fincantieri, ecc. Al di là dell’aspetto economico, il distacco di Fiat può rappresentare una critica lacerazione per il sistema industriale: a Giorgio Squinzi tocca il non facile compito di guidare questa transizione.

Diciamo anche che la bassa produttività – al di la delle facilitazioni che non ci sono all’interno di una regolazione che mantiene “ingessato” il marcato del lavoro italiano – è anche e soprattutto causata in Italia da altissimi indici di assenteismo e da coloro che dal sistema lavoro si fanno mantenere… Produttività significa anche efficienza: l’industria e l’impresa italiana non brillano certo per efficienza. Questo perché la cultura conflittuale del lavoro rimane comunque molto forte e di fatto finisce con l’incentivare l’assenteismo e la deresponsabilizzazione sulla base delle vecchie ed obsolete garanzie e sicurezze.

Domanda: quando inizieremo a pensare di rendere più attraente l’economia italiana per gli investitori stranieri?