Questa volta il dato Istat relativo alla disoccupazione giovanile ha spiazzato davvero tutti: in un solo mese, rispetto all’ultimo monitoraggio diffuso ai primi di aprile, il trend negativo è salito di 4 punti secchi: dal 31,9% al 35,9% (dato relativo al mese di marzo). Già verso la metà degli anni ’90, il tasso di disoccupazione dei giovani aveva superato il 30%, nel 2004 era al 29% per poi raggiungere il 20% nel 2007. Si tratta quindi di un problema che ha origini non esclusivamente riconducibili alla crisi economica; il problema della disoccupazione giovanile ha cause che vanno ricercate al di là degli aspetti e delle opportunità occupazionali.
Come ha precisato l’Istat con una nota ufficiale, non è corretto affermare che “più di un giovane su tre è disoccupato”, mentre sarebbe più corretto segnalare che “più di uno su tre dei giovani attivi è disoccupato”. Infatti, in base agli standard internazionali, il tasso di disoccupazione è definito come il rapporto tra i disoccupati e le forze di lavoro (ovvero gli “attivi”, i quali comprendono gli occupati e i disoccupati). Se, dunque, un giovane è studente e non cerca attivamente un lavoro non è considerato tra le forze di lavoro, ma tra gli “inattivi”. Per quanto riguarda il dato sulla disoccupazione giovanile relativo al mese di marzo 2012, i “disoccupati” di età compresa tra i 15 e i 24 anni sono circa 600 mila, cioè il 35,9% delle forze di lavoro di quell’età e il 10,3% della popolazione complessiva della stessa età, nella quale rientrano studenti e altre persone considerate inattive secondo gli standard internazionali.
Sono invece 2,2 milioni i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono iscritti né a scuola, né all’università, né lavorano e nemmeno seguono corsi di formazione o di aggiornamento professionale: sono i cosiddetti Neet (Not in education, employment or training). Sono il 23,4% della popolazione nazionale di riferimento. Ricordiamo anche che ci sono 117.000 posti di lavoro che nessuno vuole (dati Excelsior Ministero del Lavoro): si tratta non solo di alti profili, ma anche di profili meno elevati come commessi (5.000), camerieri (2.300), informatici e telematici (1.400), contabili (1.270), elettricisti (1.250), baristi (1.000), idraulici (1.000), ecc.
Abbiamo quindi alcuni giovani che non entrano nel mercato del lavoro, né ci provano, e alcuni che hanno difficoltà a entrarvi. In merito al secondo aspetto, possiamo dire che oggi i giovani arrivano impreparati all’ingresso nel mercato, un po’ per le carenze del sistema formativo (l’assenza di una efficace alternanza scuola-lavoro, l’esistenza di programmi obsoleti), un po’ perché, idealmente, per la maggior parte di essi il lavoro è ciò che è stato per i loro padri: un lavoro a tempo indeterminato presso la medesima azienda. Ritengono, perché così è stato loro trasmesso, che qualsiasi contratto di lavoro che non sia a tempo indeterminato sia di “seconda classe”. La loro è una posizione attendista, della buona sistemazione, del contratto a tempo indeterminato. Anche per questo molti si affacciano tardivamente al lavoro: in media, l’età del primo impiego in Italia è 22 anni, contro i 16,7 dei tedeschi, i 17 degli inglesi e i 17,8 dei danesi. È doveroso però ricordare che il contratto a tempo indeterminato è, per definizione, un contratto in cui non è indicato il momento in cui si concluderà; non si tratta di un contratto di lavoro il cui termine è il raggiungimento dell’età pensionabile.
Non dobbiamo inoltre dimenticare che, mediamente, le aziende ogni 5-6 anni sono chiamate a riassestarsi, a riorganizzarsi e a ricollocarsi sul mercato: questo determina un’alta mobilità e fluttuabilità all’interno del mercato. Teoricamente, ciò dovrebbe tradursi in una maggiore dinamicità del mercato del lavoro e in una maggior facilità di incontro tra le parti. Ci sono invece lavoratori che non trovano lavoro, e datori di lavoro che non trovano lavoratori, nello stesso momento e nello stesso luogo.
Questa anomala caratteristica del mercato del lavoro – che nel caso dei giovani italiani ha raggiunto numeri abnormi – è stata indagata da tre studiosi, Peter Diamond, Dale Mortensen e Cristopher Pissarides, investiti nel 2010 del più prestigioso tra i premi: il Nobel per l’Economia. I due americani e l’anglo-cipriota hanno reso evidenti le difficoltà di comunicazione che esistono tra domanda e offerta di lavoro, e hanno sviluppato delle linee guida che suggeriscono a chi si occupa di mercato del lavoro, e quindi di politiche del lavoro, di incrementare le informazioni e la loro circolazione, in modo tale da permettere agli stessi lavoratori di essere più a conoscenza del fabbisogno produttivo. Non solo, i tre studiosi hanno dimostrato – dati alla mano – come il sussidio prolungato non sia la forma più opportuna per il ricollocamento della persona in stato di difficoltà occupazionale: esso facilita infatti una certa passività, mentre il sussidio breve rende la persona più attiva e partecipe nella ricerca di un nuovo posto di lavoro.
Qui veniamo alle atipicità del mercato del lavoro italiano: l’ultima rilevazione di Unioncamere ci dice che l’85% di chi trova lavoro lo fa attraverso il canale informale, il passaparola; solo il 15% passa attraverso una selezione che può essere dell’azienda stessa che assume oppure passando dai servizi preposti, pubblici o privati che siano. Questo dato è già di per sé indicativo rispetto alla debolezza del sistema di orientamento italiano (in Germania nel 40% dei casi si passa attraverso il canale formale, quello dei servizi dedicati). Senza parlare di come culturalmente in Italia si continui a pretendere che il sistema di welfare e quindi di sostegno alla difficoltà occupazionale risolva tale difficoltà e non sia invece strumento di supporto a tale difficoltà, cosa invece propria di ciò che a livello europeo e non solo rientra nella vision di politica attiva del lavoro.
Considerando poi quanto si diceva prima relativamente all’attuale sistema economico dove mediamente ogni 5-6 anni le aziende sono chiamate a riassestarsi e a riposizionarsi sul mercato, oggi il “ciclo produttivo” di un lavoratore non è più di 40 anni (come nell’“economia dei padri”), ma di 5: la flessibilità è esigenza reale delle aziende ed è abilità/capacità premiata dal mercato. Non si tratta soltanto di un aspetto della contrattualistica: la flessibilità è soprattutto disponibilità ad aggiornare e adattare il proprio sapere e saper fare alle richieste del mercato; la flessibilità è atteggiamento del lavoratore che si sente responsabilizzato in relazione al suo ruolo di protagonista nella realtà e nella sua vita lavorativa. Si tratta di un cambio di mentalità che consiste nel lavorare imparando e nell’imparare lavorando, espressione di una cultura nuova: il lavoro è un’opportunità da vivere responsabilmente, come apprendimento continuo. Questo è il cosiddetto learning by doing.
Per questo è utile non confondere flessibilità e precariato, cosa su cui bene o male i padri e i media in Italia vanno a braccetto, contribuendo al disorientamento sempre più profondo del giovane. Siamo in presenza di un’economia dei rischi in cui non si colgono le opportunità che questo comporta, ma si cerca di compensare questi rischi con l’individuazione di antiche sicurezze invece di nuove forme di flessicurezza come qualcuno propone. Una ricerca del Crisp (Centro di ricerche dell’Università di Milano Bicocca) condotta nelle regioni del nord Italia, mostra come la mobilità delle persone è sempre più crescente, indipendentemente dalla tipologia contrattuale utilizzata per la regolarizzazione del rapporto di lavoro. La durata media per le assunzioni con contratti a tempo determinato è pari a 6 mesi circa; per il tempo indeterminato è pari a circa 14 mesi il tempo medio presso il medesimo datore di lavoro. Il 64% dei contratti dei giovani sono contratti flessibili, ma il 73% dei contratti a tempo determinato diventano a tempo indeterminato entro 42 mesi.
Si continua ad alimentare la retorica del precariato quando rispetto allo specifico problema dell’occupazione giovanile il rilancio dell’apprendistato è soluzione sostenuta da tutte le Regioni e Parti Sociali. Non è il contratto a tempo indeterminato che rende un lavoratore non precario, ma la sua continua capacità di essere appetibile per il mercato del lavoro.
Per concludere, la crisi economica di questi ultimi anni ha fatto semplicemente esplodere il deficit culturale italiano, che si riverbera certo sul mondo del lavoro, ma viene prodotto e coltivato anche altrove, soprattutto a scuola e in famiglia. La difficile transizione tra scuola e lavoro è figlia certo di questo deficit, ma non certo perché non abbiamo una scuola capace di insegnare un mestiere, quanto piuttosto perché scuola e famiglia sono sempre più in difficoltà nel formare uomini autonomi, responsabili, capaci di sentirsi a casa nel mondo che abitano. È questo il malessere sociale che il rapporto Censis 2010 ha denunciato: ce ne siamo dimenticati troppo in fretta…