La difficile transizione dalla scuola al lavoro dei giovani italiani, di cui si è scritto lungamente su queste pagine, è un fatto assodato, sotto gli occhi di tutti, decisori politici e semplici cittadini: i disoccupati, nella fascia di età 15-24 anni, hanno ormai raggiunto il livello considerevole del 31% rispetto a una media Ue del 20,5%, ponendo così l’Italia al terz’ultimo posto dopo la Grecia (38,5%) e la Spagna (46,2%). In buona sostanza, uno su tre dei nostri giovani è disoccupato e tale situazione è resa ancor più drammatica dal cosiddetto “effetto cicatrice” (scarring effect): i Not in education, employment or training (Neet), coloro che non stanno attualmente né studiando, né lavorando e neppure in formazione, hanno raggiunto l’11,2% rispetto al 3,4% della media europea.
Tra i tanti rimedi che sono stati ipotizzati, anche dall’Ocse, uno dei più efficaci sembra essere quello di rendere più flessibili e permeabili i percorsi di studio con quelli lavorativi perché, per i giovani, vi è la necessità di iniziare a confrontarsi, da subito, con il mercato del lavoro. Purtroppo coloro che lavorano, in questa fascia di età, sono solo il 20,5% contro un 34,1% a livello europeo. Quindi, anche rispetto a tale ambito, la situazione nostrana appare senz’altro inadeguata, se comparata a quella delle principali economie continentali. In questa fascia di età, difatti, la quota di giovani che durante il periodo degli studi riescono a svolgere una qualche forma di attività lavorativa, qui da noi, è soltanto il 2,9% rispetto al 24,3% della Germania, al 21,4% del Regno Unito e al 10,3% della Francia: il dualismo tra studio e lavoro è, dunque, un problema non proprio trascurabile. Se questa è la cornice generale pare inutile sottolineare che è proprio tale fascia giovanile a essere la più colpita dall’attuale crisi occupazionale.
Sembra esservi, nondimeno, una piccola oasi felice in cui i percorsi di transizione sono molto più agevoli: è la realtà della formazione professionale, la quale rappresenta, a suo modo, una realtà positiva assai poco conosciuta dalla pubblica opinione in generale. Poco conosciuta perché non tutti sanno, a partire proprio dalle famiglie – le quali sono però decisive nell’orientare le scelte dei propri componenti -, che esiste un canale definibile vocazionale (vocational education training, Vet), immediatamente professionalizzante, che è quello del sistema dell’Istruzione e Formazione professionale (IeFP), governato dalle Regioni.
Un momento importante, a livello nazionale, di visibilità politica, istituzionale e sociale del mondo della formazione professionale si è avuta recentemente a Roma, quando la Confederazione nazionale formazione aggiornamento professionale ha promosso una grande manifestazione nazionale, la prima edizione di C’è qualcosa di più, una festa del lavoro e sulle professioni. Nel convegno, si è discusso ampiamente della strategicità dei percorsi IeFP nel combattere la disoccupazione giovanile, la dispersione scolastica nonché nel rispondere alla domanda di formazione dei giovani immigrati.
La formazione professionale prima della legge del 28 marzo 2003, n. 53 era relegata al di fuori del sistema scolastico mentre, da allora in poi, essa ha assunto un aspetto di carattere ordinamentale, un sotto-sistema, un secondo ambito, di pari dignità rispetto a quello scolastico consentendo così di assolvere all’obbligo di istruzione (16 anni) e al diritto-dovere all’IeFP (18 anni). Questo sotto-sistema prevede percorsi formativi di durata triennale (della durata di almeno 990 ore) e quadriennali, avviati con una sperimentazione nel 2002, ormai a regime, tanto che si è passati dai 23.000 allievi nel 2002-03 ai quasi 176.000 del 2010-11, pari all’8% del totale dei giovani nella fascia 14-17 anni. Più in dettaglio, nell’anno 2010-11 si sono iscritti ai percorsi formativi triennali 173.000 allievi, suddivisi in quasi 115.000 presso le istituzioni formative accreditate, i Centri di formazione professionali (Cfp), e 58.000 presso le istituzioni scolastiche, gli Istituti professionali di Stato (Ips). A questi, sono da aggiungere 2.500 iscritti al quarto anno dei percorsi di IeFP.
Ciò che rende tali percorsi formativi una piccola oasi felice è la migliore rispondenza ai fabbisogni occupazionali del sistema produttivo locale. Gli esiti dei percorsi triennali degli allievi dell’istruzione e formazione professionale sono, difatti, assai incoraggianti. Da una ricerca condotta dall’Isfol, tra il luglio 2010 e il febbraio 2011, Gli esiti formativi e occupazionali dei percorsi triennali, su un campione rappresentativo di 3.600 giovani, qualificatisi sia nelle strutture formative accreditate che negli istituti scolastici, emergono, al riguardo, risultati assai interessanti.
Gli intervistati sono soprattutto maschi (59%), di nazionalità italiana (94,2%), allievi dei Cfp accreditati (60% e per il restante 40% frequentanti gli Ips); essi sono perlopiù figli di operai (55%) il cui titolo di studio più alto è la licenza media (61%). È di qualche interesse osservare che il background precedente è tutto sommato lusinghiero, in quanto il 55,5% degli allievi era uscito dalle scuola medie con il giudizio finale di “buono” e “distinto”, mentre il 42% con quello di “sufficiente”. Da rilevare, infine, che solo il 27% aveva fatto una precisa scelta vocazionale, vale a dire aveva espresso il desiderio di imparare subito un mestiere, scegliendo la formazione professionale, ad esempio, decidendo di fare, fin da subito, il “meccanico”.
Nel gruppo di età 15-24 anni, che è la coorte maggiormente in difficoltà nella transizione studio-lavoro, il 51% dei qualificati IeFP trova un lavoro entro un anno dalla qualifica. La stabilità di tale lavoro può essere comprovata dal fatto che nei tre anni dalla qualifica il 56% degli intervistati ha svolto una sola occupazione. Altro elemento da evidenziare è l’allineamento tra il lavoro conseguito e il percorso formativo (64%) e ciò è maggiormente vero nei settori industriale ed elettrotecnico; un rapporto di lavoro dipendente viene dichiarato nell’87% dei casi, mentre il 13% è impiegato in posizioni lavorative autonome e/o parasubordinate.
Rispetto alle varie tipologie, il contratto di apprendistato è stato il più utilizzato dai datori di lavoro (35%), seguito da quello a tempo indeterminato (33%) e a tempo determinato (25%). I maschi (64%) hanno trovato impiego più facilmente delle femmine (52%), mentre i settori dove è stato più facile trovarlo sono stati l’elettrotecnica, l’industria e i servizi sociali e alla persona, mentre quelli dove è stato più difficile, il turistico-alberghiero e i servizi alle imprese. Il conseguimento del primo impiego è stato, dunque, più rapido per le qualifiche acquisite negli indirizzi industriali, mentre ha avuto i peggiori esiti per le qualifiche inerenti i servizi alle imprese. Da qui se ne potrebbe dedurre che i servizi alle imprese parrebbero richiedere delle competenze di più elevata qualificazione oppure che le imprese, per queste occupazioni, tipicamente di media qualificazione, preferiscano seguire altri canali di inserimento piuttosto che rivolgersi ai Cfp.
Nel conseguimento di un impiego vi è, comunque, una differenza marcata tra Cfp e Ips: dopo un anno dal termine del percorso formativo aveva ottenuto un lavoro il 70% degli allievi dei Cfp di contro al 50% di quelli qualificatesi nelle scuole, mentre dopo due anni lavorava l’85% degli iscritti ai Cfp e il 78% di quelli negli Ips. È anche interessante vedere quali erano le posizioni occupazionali al primo impiego: operai generici (45%); operai specializzati (38%); impiegati esecutivi (9%); lavoranti in proprio (6%); impiegati qualificati (3%).
In generale, comunque, la situazione occupazionale dipende moltissimo da diverse variabili quali la circoscrizione geografica, il genere e la qualifica acquisita. Vale a dire che il tasso di occupazione, per questi qualificati, è maggiore per gli uomini rispetto alle donne, per le regioni settentrionali rispetto a quelle meridionali e per le qualifiche industriali rispetto a quelle dei servizi alle imprese.
In definitiva, gli esiti occupazionali dei percorsi IeFP sono senz’altro positivi in quanto dimostrano l’efficacia di questo canale, vale a dire la “capacità dei percorsi di funzionare come canale professionalizzante, sia per coloro che scelgono sotto una spinta fortemente vocazionale, sia per coloro che si sono affacciati ai percorsi come ultima occasione, con un bagaglio di insuccessi e di demotivazioni tale da porli a rischio di rifiuto verso qualsiasi canale scolastico e formativo”(Enrica Marsili e Valeria Scalmato).