È di qualche giorno fa la diffusione della rilevazione Ocse sull’occupazione: la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, è una vera emergenza in Grecia e Spagna, ma con fenomeni preoccupanti anche per l’Italia. Le previsioni non sono incoraggianti. La disoccupazione nel nostro Paese dovrebbe salire dall’8,4% del 2010 e del 2011 al 9,4% nel 2012 e al 9,9% nel 2013. L’occupazione, che era aumentata dello 0,4% nel 2011 rispetto al 2010 (-0,7% rispetto a 2009), dovrebbe registrare un calo dello 0,3% nel 2012 e nel 2013 rispetto all’anno precedente. Tra il 2010 e il 2011 è cresciuta in Italia l’occupazione a tempo parziale che passa dal 16,3% al 16,7%: il 76,6% di questo tipo di occupazione nel 2011 è realizzato dalle donne.



Tuttavia, è la cosiddetta disoccupazione di “lunga durata” che spiazza gli analisti: oltre il 50% di chi ha perso il lavoro oltre un anno fa non ne ha più trovato un altro nei dodici mesi successivi, quota che sale al 30% se considerano gli ultimi due anni. Perché questa criticità nel ricollocamento?

Ancora una volta i numeri, seppur con i loro limiti, qualche indicazione ce la danno: ammettiamo pure che essi presentino qualche margine di imprecisione, ma ci sono più indicatori che denotano come ci sia una sorta di difficoltà nel nostro Paese a intendere il lavoro in un modo “attivo”. Ricordiamo innanzitutto che sarebbero 630mila i posti da coprire, a partire dai dati del Sistema Informativo Excelsior di Unioncamere e da quelli del Ministero del Lavoro. Si tratta non solo di alti profili, ma anche di profili meno elevati, in gran parte di cuochi, camerieri, badanti, personale delle pulizie.



È vero che ci sono flussi importanti in uscita dal mercato e dovremo cercare di abituarci sempre di più: siamo figli dell’economia globale, un’economia in cui ogni 5/6 anni le aziende si riassestano, si riducono, si riorganizzano, cambiano pelle insomma. E questo causa flussi a volte imponenti, difficili da gestire, sui quali sicuramente il nostro sistema di ammortizzatori sociali deve crescere. Certo è che il protagonista del reinserimento nel mercato del lavoro è sempre lui, il lavoratore. Nessun tipo di politica attiva risolverà mai da sé la fatica del ricollocamento.

Il problema reale è che spesso colui che esce dal mercato non riesce a concepirsi in un altro ruolo. Questo è ciò cui dovrebbe adempiere l’orientamento nelle sue attività, ma qui veniamo alle atipicità del mercato del lavoro italiano: l’85% di chi trova lavoro lo fa attraverso il canale informale, il passaparola; solo il 15% passa attraverso il canale formale e dai servizi preposti, pubblici o privati che siano (fonte UnionCamere). Questo dato è già di per sé indicativo rispetto alla debolezza del sistema di orientamento italiano (in Germania nel 40% dei casi si passa attraverso il canale formale, quello dei servizi dedicati). Senza parlare di come culturalmente in Italia si continui a pretendere che il sistema di welfare – e quindi di sostegno alla difficoltà occupazionale – risolva tale difficoltà e non sia invece strumento di supporto a tale difficoltà.



Considerando poi quanto si diceva prima relativamente all’attuale sistema economico dove mediamente ogni 5-6 anni le aziende sono chiamate a riassestarsi e a riposizionarsi sul mercato, oggi il “ciclo produttivo” di un lavoratore non è più di 40 anni (come nell’“economia dei padri”), ma di 5: la flessibilità è esigenza reale delle aziende ed è abilità/capacità premiata dal mercato. Non si tratta soltanto di un aspetto della contrattualistica: la flessibilità è soprattutto disponibilità ad aggiornare e adattare il proprio sapere e saper fare alle richieste del mercato; la flessibilità è atteggiamento del lavoratore che si sente responsabilizzato in relazione al suo ruolo di protagonista nella realtà e nella sua vita lavorativa.

Per questo è utile non confondere flessibilità e precariato, cosa su cui bene o male i padri e i media in Italia vanno a braccetto, contribuendo al disorientamento sempre più profondo del giovane. Ecco perché chi esce dal mercato ha difficoltà a ricollocarsi: è chiaramente difficile trovare il lavoro che si è perso, anche perché la stessa mansione all’interno di aziende similari può variare.

In realtà, chi ha davvero intenzione di ricollocarsi lavora su di sé e sulle sue competenze; spesso proprio con l’aiuto di un esperto è possibile scoprirne di nuove. Ma tutto questo è faticoso e presuppone il rimettersi in gioco, cosa difficile; è molto più facile fermarsi e cedere alla retorica del “non c’è lavoro”. Non siamo in un periodo particolarmente florido per l’economia, ma non è proprio così…