Ogni giorno arriva una notizia che ci mostra la gravità della situazione economica del nostro Paese e di altri paesi europei. Una delle ultime riguarda l’aumento del cuneo fiscale sul lavoro che è arrivato al 55% (in “soldoni”, coloro che lavorano lo fanno per il 55% del loro tempo per lo Stato). È da mesi che assistiamo a manovre fiscali che si abbattono sulle persone, sulle famiglie e sulle imprese. L’obiettivo è la riduzione degli sprechi e del debito pubblico, ma nonostante tutto lo spread cresce e anche il debito pubblico.



La situazione è ancor più preoccupante se osserviamo l’andamento dei principali indicatori del mercato del lavoro. Nel 2008, relativamente al tasso di disoccupazione, l’Inghilterra e l’Italia possedevano i valori più bassi, rispettivamente il 5,7% e il 6,7%, mentre Germania, Spagna e Francia si attestavano al 7,5%, 11,3% e 7,8%.



La crisi, ed evidentemente la capacità di risposta dei “sistemi” di ciascun Paese, ci mostra oggi e per l’immediato futuro dei cambiamenti sostanziali. Nel 2011 (ultimo dato statistico ufficiale) la Germania si attesta al 5,9% riducendo significativamente il tasso di disoccupazione; Francia, Inghilterra e Italia salgono di circa 2 punti percentuali, mentre in Spagna il tasso di disoccupazione sale di circa 10 punti percentuali assestandosi al 21,6%. Sono però le previsioni che abbiamo effettuato per il 2012 e il 2013 che ci lasciano molto sorpresi: la Germania continua la sua discesa con un dato medio nel 2012 pari al 5,1% e del 2013 del 4,4%. Anche Francia e Inghilterra hanno indicatori in sostanziale decremento rispettivamente 9,4% (2012) e 7,8% (2013) la prima e 8% (2012) e 7,7% (2013) la seconda.



I dati previsionali di Spagna e Italia sono invece in forte rialzo. Per la Spagna il valore medio si attesta nel 2013 al 28,7%, mentre per l’Italia, con repentini sbalzi negli ultimi due quadrimestri del 2012 e del 2013, il tasso di disoccupazione arriva a valori decisamente inaspettati e molto preoccupanti. Nel 2012 si sale di circa 4 punti percentuali rispetto al 2011 arrivando a un valore nell’intorno del 12% e nel 2013 di ulteriori 7 punti percentuali attestandosi a un valore medio annuo pari a circa 19%.

Così come la situazione è diversa nei paesi analizzati, anche all’interno dei singoli paesi esistono molte differenze. In particolare da noi esiste una forte differenziazione tra Nord e Sud e tra generazioni; i giovani hanno molte difficoltà all’ingresso del mercato del lavoro, in particolare quelli con bassi titoli di studio e del Sud; l’ultimo dato Istat del mese di maggio di quest’anno mostra un tasso di disoccupazione giovanile tra i 15 e 24 anni pari al 36,2%.

In questa situazione stiamo assistendo a due fenomeni possiamo dire opposti: da una parte ci sono le imprese – in particolare quelle piccole e medie che costituiscono certamente un elemento distintivo dell’Italia (le Pmi occupano l’80% dei 17,5 milioni di dipendenti) – e le persone, in particolare i giovani, e dall’altra la “politica”.

Assistiamo sempre più spesso a tentativi virtuosi di risposta alla difficile situazione di imprenditori che cercano nuovi prodotti e servizi, trovano spazi nei mercati, nazionali e internazionali, investono i propri risparmi per sostenere la difficile situazione cercando di ridurre il più possibile l’impatto della crisi sui lavoratori. Vediamo giovani, in particolare laureati, che accettano la sfida della situazione affrontando la realtà con il desiderio di imparare un mestiere e le occasioni di lavoro come opportunità (sia in Italia, sia all’estero). Dall’altra parte abbiamo la “politica” che negli ultimi decenni non ha trovato risposte, con riforme strutturali, alle mutate esigenze di cambiamento del sistema economico e sociale, rimanendo ferma nella difesa di corporativismi e personalismi incapaci di rispondere al bene comune.

Il lavoro oggi rappresenta un elemento sostanziale per evitare un’ulteriore perdita di fiducia delle persone del nostro Paese e il dibattito, anche tenendo conto dei dati pur sintetici sopra esposti, non si può soffermare a ritocchi giuridici che rischiano di irrigidire le condizioni attuali nella prospettiva, antistorica, del posto fisso per la vita. Meglio un lavoro flessibile, un lavoro precario che non lavorare. La riforma Fornero, già in vigore, prevede che tra un contratto a tempo determinato e un altro debbano passare tre mesi; non sarebbe meglio lavorare in quei tre mesi invece di rimanere disoccupati? Aumenta il cuneo fiscale sui contratti flessibili; non sarebbe meglio aumentare lo stipendio netto ai lavoratori flessibili? Sono solo esempi e come tali, certamente parziali ma indicativi di una situazione.

Di fronte alle crescenti difficoltà la speranza per il futuro esiste e può essere sostenuta a partire dai tentativi positivi in atto di persone e imprese che accettano la sfida della realtà per costruire qualcosa di buono per sé e per la società in cui viviamo. È questa una strada a cui la politica può guardare per costruire tentativi di risposta ai bisogni sempre più imprevedibili degli uomini.