Tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni, il tasso di disoccupazione – ovvero l’incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca – è pari al 36,2% (dato relativo al mese di maggio 2012), in aumento di 0,9 punti percentuali rispetto ad aprile. Rispetto alla popolazione di questa fascia di età, i disoccupati rappresentano il 10,5%. Si tratta di un livello record sia rispetto all’inizio delle serie storiche mensili nel 2004 sia rispetto a quelle trimestrali nel quarto trimestre del 1992. Ricordiamo, al di là dei numeri della disoccupazione, anche quelli della rassegnazione: sono 2,2 milioni i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono iscritti né a scuola, né all’università, né lavorano e nemmeno seguono corsi di formazione o di aggiornamento professionale. Sono questi i cosiddetti Neet (Not in education, employment or training). Sono il 23,4% della popolazione nazionale di riferimento.



È questa la vera anomalia italiana, che ha raggiunto i numeri più alti dell’Unione europea e della stessa area Ocse: non è questione che i giovani non trovano lavoro, piuttosto che non lo cercano. Nel confronto internazionale i nostri giovani si distaccano da quelli della maggior parte dei paesi avanzati non certo perché più colpiti dalla tragedia della disoccupazione, ma precisamente per la ragione opposta: perché ritardano enormemente il loro ingresso nel mercato del lavoro. In media l’età del primo impiego in Italia è 22 anni, contro i 16,7 dei tedeschi, i 17 degli inglesi e i 17,8 dei danesi. Nei paesi “normali” ci si laurea intorno ai 22-23 anni, spesso contribuendo al bilancio familiare e alle spese dell’istruzione, che non sono basse come da noi. In Italia ci si laurea tardi, spesso in prossimità dei 30 anni, e si comincia la ricerca di un lavoro a un’età in cui negli altri paesi si è accumulata una cospicua esperienza professionale.



La recente indagine Sanpellegrino-Tesionline, condotta su un campione di 11.000 studenti (laureandi e neolaureati), ha rilevato che il posto fisso è una priorità solo per il 13% di loro e che oltre un laureato su tre (35%) sogna di trovare subito un posto di lavoro, ma in Italia. È uno dei dati dell’indagine che sfata il mito dei “cervelli in fuga” all’estero in cerca di condizioni di lavoro più dignitose. Lo studio, realizzato in occasione del Premio Sanpellegrino Campus, ha voluto fotografare le aspettative, i sogni e i bisogni di chi si avvicina al traguardo della laurea o l’ha appena superato. Quello che emerge è che i giovani “sono disposti a guadagnare meno pur di sentirsi realizzati professionalmente, e vogliono lavorare in un grosso gruppo o azienda internazionale. Ma un laureato su otto non riesce a immaginarsi fra 10 anni”.



Tra le ambizioni resiste il posto fisso (16% dei laureati). Il luogo ideale dove trovare occupazione sono le aziende, ma a patto che si possa “crescere professionalmente (24%), fare formazione (16%) e incentivare i più meritevoli”. Solo un ragazzo su dieci (12%) pensa di prendersi un periodo sabbatico, ovvero una pausa dopo la laurea per ricaricare le energie prima di buttarsi nel lavoro. Anzi, c’è la voglia di accumulare più esperienze anche in settori diversi dalla propria formazione (15%), di specializzarsi all’estero (14%) e di perfezionare almeno una lingua straniera (14%).

Dall’indagine emergono anche aspettative interessanti: tra le aspirazioni degli intervistati ci sono il bilanciamento della vita professionale con quella privata (12%), ma anche il rafforzamento del welfare interno all’azienda, con la creazione di asili nido, convenzioni o facilitazioni (12%), e la richiesta di un maggiore ascolto alle idee dei giovani (10%). A preoccuparli, infine, ci sono le stesse paure di chi nel mondo del lavoro c’è già da qualche anno: l’ansia da risultati (17%), la competizione selvaggia (16%), i rapporti umani ridotti al minimo (14%) e i ritmi di lavoro insostenibili (14%). La fotografia è tutt’altro che poco virtuosa, emergono bisogni e desideri propri di qualunque giovane, anche di chi ora non lo è più.

Questi dati tuttavia non cancellano i numeri della rassegnazione, i 2,2 milioni di ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano, coloro per cui il tempo si è pericolosamente fermato. Sono un po’ troppi per pensare che siano degli svogliati, che non abbiano voglia di fare nulla. Cosa c’è dietro l’imponente fenomeno della rassegnazione e del calo del desiderio (rapporto Censis 2010)? C’è tutta la decadenza dei “luoghi della speranza” – così li definisce il Medico Psichiatra Prof. Pietropolli Charmet: quei luoghi, come la famiglia e la scuola, che per definizione fanno avvertire futuro e riferimenti a chi ne ha costitutivamente bisogno.

Nessuna riforma cambierà le cose se non cambierà un intero modo di pensare, un’intera mentalità tipica del nostro Paese giunta ormai al capolinea. Come ha scritto neanche troppo recentemente il Prof. Luca Ricolfi su La Stampa, “far credere ai giovani che potranno godere degli stessi privilegi della nostra generazione significa solo prolungare l’inganno che ci ha condotto alla situazione attuale. Una situazione retta da un patto scellerato fra due generazioni: la generazione dei padri e delle madri, iperprotettiva e per nulla esigente, e la generazione dei figli, spensierata finché l’età e le risorse familiari glielo consentono, e disperata quando deve cominciare a marciare con le proprie gambe”.