Quasi il 47% dei giovani italiani (classe di età 18-29 anni) è inattivo. Lo ha detto ieri il Presidente dell’Istat, Enrico Giovannini. La crisi ha toccato tutti i settori economici e tutti i territori, ma certamente per i giovani e per le donne le ripercussioni sono state, sono (e a oggi le previsioni non fanno ben sperare), più negative.



I dati delle statistiche ufficiali di Istat ed Eurostat sono da questo punto di vista emblematici. Complessivamente, la situazione italiana per il 2011 ha mostrato un tasso di disoccupazione sostanzialmente nella media europea e un tasso di occupazione (specialmente quello femminile) largamente inferiore al dato medio dei paesi Ue (la partecipazione al mercato del lavoro femminile in Italia si attesta al 46,5%, a fronte del 58,5% dell’Ue). Il tasso di inattività, un indicatore forse trascurato prima della crisi, risultava inoltre già preoccupante; sebbene sia calato di mezzo punto tra il 2010 e il 2011, nel quarto trimestre del 2011 il valore italiano si è attestato al 37%, il peggiore dell’Eurozona.



Eurostat ha calcolato che un terzo dei circa 8,6 milioni di individui che nei paesi dell’Unione europea dichiaravano di non cercare lavoro ma di essere disponibili a lavorare si trovavano in Italia (a fronte di poco più del 9% dei disoccupati italiani sul totale dei disoccupati Ue). In sostanza, sommando ai disoccupati le forze di lavoro potenziali italiane, circa 5 milioni di unità impiegabili non sono state utilizzate nel processo produttivo nel 2011.

Se i dati generali mostrano, tra il 2010 e il 2011, un lieve aumento dell’occupazione complessiva, parallelamente evidenziano una diminuzione degli occupati appartenenti alle classi di età più giovani (-93 mila tra 15 e 29 anni). Escludendo le coorti impegnate in percorsi scolastici, il tasso di occupazione per i giovani della fascia 18-29 anni è sceso al 41% nel 2011, mentre il tasso di disoccupazione nella stessa classe d‘età ha mostrato un’impennata dal 2008, raggiungendo nel 2011 il 20,2%.



Le difficoltà dei giovani si sono riscontrate oltretutto analizzando la quota di popolazione inattiva, che come evidenziato in precedenza, risulta uno dei maggiori fattori di problematicità nel confronto europeo. Restringendo l’analisi alla popolazione nella fascia 20-34 anni, nel 2010 in Italia il 23,3% risultava inattivo a fronte di una percentuale del 9,6% relativa all’intera Ue (Ue-27). Il dato italiano, oltre a essere il peggiore rispetto a tutti i paesi dell’Ue, è continuato a crescere (19,8% del 2008, 21% nel 2009).

Sebbene la bassa partecipazione al mercato del lavoro da parte dei giovani possa nascondere un maggior investimento in attività formativa, in realtà questo non è accaduto: ne è un esempio la costante diminuzione dei tassi di occupazione nella fascia 25-29 anni (attestatosi al 68,7% nel 2011 a fronte del 82,5% dei paesi Ue). È importante segnalare che gli alti livelli di scolarità rappresentano nel mercato del lavoro oggi (pur con minore efficacia rispetto al contesto europeo) certamente un elemento di minor rischio di esclusione dal lavoro o meglio di garanzia di maggiore continuità nell’esperienza lavorativa.

L’incapacità di attrarre i giovani, di valorizzarli nel sistema produttivo, evidenzia soprattutto per coloro che hanno un diploma o una laurea, le carenze, da una parte dovute alla crisi in atto ma dall’altra della struttura delle nostre imprese e delle “scarse” politiche di sviluppo e sostegno delle stesse attuate dalle Istituzioni pubbliche.

Il disallineamento tra offerta e domanda di capitale umano, sempre più evidente, fa emergere un contesto che non valorizza i giovani nei necessari processi di crescita e di sviluppo urgenti per il nostro sistema economico ed il nostro paese. È per questo che occorre investire nell’innovazione dei sistemi formativi del nostro Paese e congiuntamente nelle infrastrutture socio-economiche per essere in grado di assicurare alla offerta di capitale umano una adeguata dotazione.

Tale obiettivo non potrebbe essere perseguito se non attraverso un deciso intervento di politiche di sviluppo del sistema educativo e produttivo (in particolare per quest’ultimo delle piccole e medie imprese che tipicamente assorbono in maniera più che proporzionale la domanda di lavoro). Il fallimento di questa virtuosa relazione tra investimento in capitale umano, infrastruttura socio-economica, accordi con il settore produttivo e creditizio, porterebbe all’emigrazione del capitale umano, anche altamente specializzato, verso contesti più attraenti e il lento (forse non più tanto) declino del nostro Paese.

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